Calendario

Febbraio 2020

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina Il tempo della conoscenza

Il tempo della conoscenza

Critica
di Eleonora Lezzi*

È curioso quanto anche nella disperazione, anche nei momenti in cui servirebbe il conforto e la vicinanza, i pregiudizi riescano a costruire comunque muri attorno a noi che in apparenza ci fanno sentire sicuri, ma che in realtà ci lasciano sempre più soli con le nostre fragilità.

Mario e Saleh è un prodotto giovane, con il quale Scena Verticale  e Saverio Laruina, che ne è autore, regista ed interprete assieme Chadli Aloui, ci propongono uno spettacolo che sviscera i luoghi comuni e riprende le parole della gente, le ruba dalla quotidianità e le  ributta in faccia con tutto il loro verismo rivoltante e sfacciato. Quante volte le abbiamo sentite nei giornali, per strada, sul bus… parole su parole a cui si dà fiato senza attenzione. Quanto costa infatti fermarsi a capire e a conoscersi? Quanto tempo ci vuole per scoprire le differenze che ci accomunano? Perché un musulmano dovrebbe voler stare con un cristiano? che cosa ha in mente? Che cosa trama? c’è qualcosa che non va….si, è vero, c’è ed è la paura della diversità, figlia dell’ ignoranza.

Siamo in una tenda dopo un terremoto, in una tendopoli non meglio identificata. Lo spazio è claustrofobico, asettico e impersonale, il personale è rimasto sotto le macerie delle case distrutte dal sisma. Lì dentro c’è rimasto solo il guscio delle persone, pieno di rancore, amarezza, delusione e disperazione. Un’esistenza, quella di Mario, stravolta una volta e ri-stravolta ancora da una convivenza forzata e imprevista, ma soprattutto imprevedibile. Saleh è figlio di arabi, ma è nato in Italia. Parla arabo ed è un musulmano praticante. Ma questo non vuol dire che sia estremista; non vuole dire che sia un terrorista. Perché poi lo chiamiamo musulmano? Noi non ci chiamiamo cristiani, ma solo italiani. Già, perché noi siamo noi e poi c’è il “voi”: il “voi siete quelli degli attentati”, “voi siete pericolosi” e “voi siete diversi”,  questo è il paradigma di base, il muro contro il quale sbattere i pugni. Le parole di Saleh toccano perché sono vere, sentite. Affondano nel vissuto comune di chi viene additato quotidianamente con quel “voi”.

I personaggi entrano ed escono dallo spazio della convivenza forzata e della conoscenza difficile, lo vivono insieme e lo odiano insieme, sfogando l’imbarazzo di quella situazione così scomoda sugli oggetti, buste, zaini e borse che vengono fatte e disfatte, fatte e disfatte ancora e ancora, precarie, come precari sono i rapporti umani. Saleh, il voi, ha scelto di mischiarsi con il noi. Lo ha fortemente voluto e Mario si interroga incessantemente sul perché. Solo alla fine lo scoprirà, svelando il senso di una domanda ricorrente durante tutto lo spettacolo, su cui anche lo spettatore si interroga incessantemente. Alle sue prime repliche, lo spettacolo si mostra intelligibile su più livelli e ci restituisce con abbondante chiarezza un’immagine nuda e cruda, ma piena di speranza. Un lavoro che non si lascia intimorire dal tirare fuori i luoghi comuni, ma li usa per dimostrarci quanto essi siano veri e quanto ci corrompano nel nostro modo di guardare gli altri e il mondo.

*progetto di scrittura critica “Giovani Sguardi”

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LE PECORE DELLA LUNA

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2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Visioni
di Gigi Mangia

Il coronavirus è invisibile, fa paura e causa la fragilità della modernità.

Si chiudono i teatri e i musei, le biblioteche e le scuole, il Duomo e la Scala a Milano, si dichiara la caccia alla ricerca “dell’infettato zero” e non lo si trova. E l’angoscia del pericolo aumenta perché non si riesce a vedere il volto dell’infettato.  Il vocabolario delle parole nuove, delle paure, della modernità, si è arricchito di una nuova, COVID-19, identificato ma sconosciuto e quindi difficile da combattere e da isolare: manca, infatti ancora, un vaccino. Il coronavirus è invisibile, ed è la sua invisibilità a fare paura, a causare terrore e a pretendere l’identificazione del portatore per difendersi e creare barriere di isolamento, le “zone rosse”. Sono stati sospesi i voli verso la Cina, chiusi i porti, isolate le grandi Province di 6 milioni di persone. Sono state chiuse le fabbriche, rinviate le mostre internazionali specializzate, ma è percepito tutto inutile, perché il virus colpisce e per di più, lo abbiamo in Italia, dove ha fatto già 4 morti. La globalizzazione è andata in crisi davanti ad una virus invisibile. L’Occidente dei paesi del sistema sanitario forte e organizzato, capace di curare tutti, di vincere le malattie e dare fiducia, oggi è in crisi.  Abbiamo fatto esperienze di epidemie. La mia generazione ha fatto il colera a Napoli negli anni ‘70. Da giovane degli anni ‘80, quando eravamo nel tempo felice di vivere i piaceri della rivoluzione sessuale arrivò l’AIDS a frenare i nostri ardori, a rifiutare di dare la mano agli amici, a pretendere la tazza di caffè bollente al bar senza essere macchiata del famoso rossetto. Negli anni successivi è stato un susseguirsi di epidemie: quella della mucca pazza, della peste suina, della Sars, in più gli incidenti delle centrali nucleari come quello di Chernobyl, degli attentati terroristici, quello dell’11 Settembre delle Torri Gemelle in America, a rovinare i nostri giorni, di figli fortunati, ancora in corsa con il benessere. Ora tutto è cambiato: la geografia economica, la Cina possiede il primo Pil per lo sviluppo; è la geografia sociale a rompere le vecchie regole e a modificare gli equilibri fra gli Stati e, soprattutto, a disorientare le nuove generazioni in crisi con il loro futuro. 

Siamo malati di incertezza e subiamo la fragilità della modernità, per questo, viviamo nel terrore. Antonio Scurati, in un suo articolo sul Corriere della Sera del 22 Febbraio “l’inerzia e l’isteria quando va’ in pezzi un’idea di modernità”, sottolinea proprio le difficoltà del nostro tempo. Scrive Scurati: “questo immaginario globale ci dice che la modernità ha fallito: quasi nessuno, purtroppo, crede più nel suo glorioso progetto di previsione e contro, nelle magnifiche sorti di progetto, ci dice anche un’altra cosa: non siamo più capaci di un equilibrato, adulto, (sano) rapporto con la morte”.  Quello della morte, è un tema centrale e ci trova impreparati, sia a viverlo, sia a rappresentarlo. I giovani di oggi, sfidano la morte lanciandosi nel vuoto dai ponti, dai grattacieli, dai treni in corsa, per affermare la forza dell’identità nello spazio di un’emozione. Nel soggetto virtuale non c’è proprio il codice di come vivere la morte e soprattutto, di come raccontarla. 

Per trovare il codice della morte bisogna tornare al senso delle parole, quindi, alla narrazione del morire. Ce lo insegna ancora Alessandro Manzoni, nei suoi Promessi Sposi, quando narra la morte di Cecilia in cui, la sua mamma, porta al carro la sua bambina morta, la bacia sulla fronte e poi torna nella sua casa e dalla finestra la saluta con l’ultimo sguardo d’amore, restando in attesa di altra morte. È una lezione che l’uomo contemporaneo ha perso. 

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Attrattori, il punto di vista di Salvatore Tramacere

Attrattori, il punto di vista di Salvatore Tramacere

Interviste
di Eleonora Tricarico

Koreja è sempre stata avanti dal punto di vista dell’innovazione, basti pensare che è un luogo al 100% accessibile. Come si è evoluta la struttura anche grazie ad Attrattori?

I Cantieri Teatrali Koreja, fin dalla loro origine, sono stati pensati e realizzati come un luogo aperto e inclusivo. Questo mantra ha accompagnato il progetto e la successiva elaborazione di una grande struttura completamente priva di barriere architettoniche. Non è solo un principio architettonico o estetico, piuttosto è l’oggettivazione di un pensiero artistico, o meglio culturale, di come Koreja pensa e vuole il teatro. Una ex fabbrica di mattoni nella periferia leccese, anche grazie alla lungimiranza delle politiche regionali, è diventata un luogo di cultura, o meglio, di culture, e un presidio di sicurezza per tutto il quartiere che è cresciuto esponenzialmente nel corso di questi anni. Questo pensiero inclusivo è stato maggiormente avvalorato grazie all’AVVISO PUBBLICO PER IL SOSTEGNO ALLE IMPRESE DELLA FILIERA DELLO SPETTACOLO DAL VIVO TEATRO MUSICA E DANZA, che nel 2018, primi in tutta la Puglia, ci ha permesso di inaugurare la nuova foresteria del teatro: 12 posti letti per 4 appartamenti indipendenti. Le compagnie e gli artisti che ospitiamo hanno la rara possibilità di accedere al teatro in qualsiasi momento e quindi di lavorare in assoluto libertà. Sono anch’esse strutture accessibili, innovative, realizzate secondo i principi di efficientamento energetico.  Un unicum nel sud Italia che ci permette di affacciarci ancora più fiduciosi al futuro.

Cultura che sposa la sostenibilità: qual è l’investimento effettuato in tal senso?

Ci si interroga spesso su cosa voglia dire sostenibilità culturale. Che la cultura sia sostenibile è uno degli obiettivi del millennio su cui hanno scommesso le Nazioni Unite. Sostenibilità, poi, è una di quelle parole malleabili che si adattano a più contesti: Koreja, da sempre, ne sposa sia il significato squisitamente economico applicando una politica dei prezzi calmierata e garantendo un’ottima visibilità del palco e quindi dello spettacolo da ogni ordine di fila e numero; che quello più legato alle politiche ambientali e all’accesso garantito alle fasce deboli. Semplicemente, mi piacerebbe pensare, che siamo tutti fasce deboli e che quindi realizzare un teatro dove non si spreca, si ricicla, dove gli spazi per i bambini sono sicuri, dove i nonni possono aspettare i propri nipoti, dove le mamme e i papà possono cambiare agevolmente pannolini, sia un dovere morale di chi fa della cultura il proprio pane quotidiano. 

Il privato ha bisogno del pubblico e viceversa: che ruolo giocano in tal senso i finanziamenti?

Koreja da sempre, pur essendo un soggetto privato, svolge una funzione pubblica: è un collettore di persone ed esperienze, fa muovere l’economia e genera guadagno. Questa funzione è riconosciuta e apprezzata dalle istituzioni statali e regionali. La vilipesa “cosa pubblica”, nel caso di Koreja, ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale, non solo per il supporto economico, ma soprattutto per la lungimiranza e la condivisione delle scelte in campo artistico – culturale. Saper guardare alle realtà del territorio e valorizzarne le eccellenze non è una banalità. Vuol dire, per prima cosa, affidarsi e comprendere la necessità di dialogo tra pubblico e privato, che è l’unica vera forza propulsiva per far crescere la cultura e garantirne luna vita.

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LE PECORE DELLA LUNA

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TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Il Mediterraneo mare di pace

Il Mediterraneo mare di pace

Visioni
di Gigi Mangia

Il 23 Febbraio, sarà il Papa Francesco, a Bari, a parlare di pace nel Mediterraneo. Jorge Mario Bergoglio, vescovo della Chiesa dell’Argentina, sente viva la necessità e l’importanza di sostenere, nella sua pastorale, la pace, ed è l’unico leader al mondo, a poterlo fare e per di più, ad essere creduto. Il Mediterraneo, nel passato è stato mare di scontro politico e religioso. Fu proprio nel Mediterraneo, dove lo scontro portò alla rottura della Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente e dove fallì anche il progetto di tenere unita la chiesa, dall’Imperatore Carlo V, in lotta con il Monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, leader del Protestantesimo. Nella divisione della Chiesa, il Mediterraneo è stato scontro di civiltà e teatro di guerra, soprattutto dopo che le grandi monarchie europee coinvolsero nella loro lotta gli arabi. Il Mediterraneo è la strada che da Occidente porta ad Oriente. Il mare di due culture, di due grandi capitali: Atene e Gerusalemme. Di due civiltà, quella araba e quella cristiana in lotta per il dominio e per il commercio dei popoli tra le due sponde. È stata una divisione sofferta, una lunga guerra subita dai popoli lungo le due sponde. È stata una guerra combattuta nel potere assoluto del simbolo della Croce. La Croce della Chiesa sempre grande, centrale, sempre pregiata, di oro, di bronzo, di marmo. È stato il Vescovo Don Tonino Bello, pastore e profeta, quello che ha preferito la Croce semplice fatta del legno dell’Ulivo, l’albero simbolo del paesaggio e del pensiero del Mediterraneo, oggi scomparso dal Salento. Don Tonino non amava e non vedeva il potere assoluto e centrale del crocifisso nel rapporto e nel credo dei popoli. Il Vescovo di Molfetta, parlava infatti, del crocifisso provvisorio nella chiesa. Per Lui il crocifisso era l’inizio di un nuovo processo della storia della liberazione dell’uomo dal peccato: era una storia da fare passo dopo passo, da raccontare parola dopo parola, sempre in cammino. Don Tonino era pastore e profeta e aveva l’arte della poesia. Conosceva le parole. Le pesava di notte con la bilancia del dolore, nel silenzio del sonno. Le parole erano per lui gli utensili del suo pensiero, del suo essere costruttore di pace. Don Tonino era teologo e filologo, era profondo conoscitore della cultura di Atene e ricco della fede di Gerusalemme. Oriente e Occidente in Don Tonino non sono due mondi, due civiltà, ma una sola strada: quella della cultura delle convivialità unite nella capacità di essere fraternità. La marcia dei 500 a Sarajevo non fu solo un gesto di coraggio di ribellione del frate contro la guerra, ma un vero esempio di come superare la guerra civile di due civiltà tra di loro contrapposte, araba e cristiana, di famiglie divise  cristiani e arabi. Don Tonino è il santo del mediterraneo di pace. Tutti ci aspettiamo, da Papa Francesco la proclamazione di Don Tonino, Santo della Pace che possa finalmente guidare i popoli a superare la guerra a fare la strada della convivialità delle differenze, ad essere fraternità o chiesa unita come predicava il prete di Alessano.

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immagine di copertina Nadia Terranova: teorie e pratiche per maturare verso l’infanzia

Nadia Terranova: teorie e pratiche per maturare verso l’infanzia

Interviste
di Giulia Falzea

Donna. Del sud. Scrittrice.
Nadia Terranova è una delle voci e delle penne più autentiche e lucide in questi tempi oscuri. Nata a Messina nel 1978, vive a Roma. Per Einaudi Stile Libero ha scritto i romanzi “Gli anni al contrario” (2015, vincitore di numerosi premi tra cui il Bagutta Opera Prima, il Brancati e l’americano The Bridge Book Award) e “Addio fantasmi” (2018, finalista al Premio Strega, vincitore del premio Subiaco Città del libro e del premio Alassio Centolibri, in corso di traduzione in venticinque paesi tra cui gli Stati Uniti). Ha scritto anche diversi libri per ragazzi, tra cui “Bruno il bambino che imparò a volare” (Orecchio Acerbo 2012), “Casca il mondo” (Mondadori 2016) e “Omero è stato qui” (Bompiani 2019). Collabora con la Repubblica, il Foglio e altre testate.
La Terranova è quello che si dice un’intellettuale impegnata: parla di donne, di misoginia e di politica con garbo e ostinazione. Crede che la letteratura sia una parte fondamentale del portato formativo anche delle nuove generazioni. È la seconda ospite del progetto “Book Parade. La Letteratura spiegata dai ragazzi” il 16 febbraio 2020 al Teatro Koreja. Il libro che ha deciso di regalare alle studentesse dell’Istituto Cezzi di Castro Moro di Maglie è VIA GEMITO di Domenico Starnone. Ci ha spiegato perché.

D: Perché hai scelto Via Gemito come romanzo di formazione?
R: ho scelto Via Gemito perché è un testo che va nel solco della tradizione letteraria nel racconto delle propria famiglia, che vede in Italia il massimo esponente ne “Il lessico familiare” di Natalia Ginzburg e “Memorie di una ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. C’è il racconto della propria infanzia e dell’emancipazione di una condizione familiare. Tutto questo c’è con grande onestà e altissima letteratura in Via Gemito

D: Cosa vuol dire essere un’intellettuale donna in Italia nel 2020?
R: Essere una scrittrice nel 2020 significa essere consapevoli di trovarsi in una situazione di passaggio in cui si è presa coscienza del fatto che il maschilismo è sicuramente da archiviare ed è in declino apparente. Tuttavia ci sono dei colpi di coda, perché la misoginia che oggi si vede e viene denunziata è ancora lunga a morire, ci sono molti passi da fare. La misoginia peggiore è quella sotterranea e continua ad esserci una grande differenza e sperequazione nel sistema valoriale per tutto quello che riguarda i meriti attribuiti alle donne.

D: Qual è il ruolo pedagogico della letteratura?
R: Fino a qualche tempo fa avrei risposto che la letteratura non ha alcuna valore pedagogico, in realtà oggi ritengo che ce l’abbia, e che sia probabilmente e soprattutto involontario. I libri più belli sono quelli che ci lasciano qualcosa, ma il messaggio non è quasi mai quello che intenzionalmente ci aveva messo l’autore.

D: Quale frase vorresti che ci fosse scritta nelle aule scolastiche, come memento, ad “imitazione” di quella nei tribunali “La legge è uguale per tutti”?
R: L’espressione che vorrei è “maturare verso l’infanzia”. È un’espressione utilizzata da Bruno Schulz e vorrei he fosse scritta dappertutto.

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina La forza del teatro negli occhi dei bambini

La forza del teatro negli occhi dei bambini

Visioni
di Paola Pepe

Nella società dell’immagine spettacolare dove tutto è veloce e pronto, a che serve il teatro? È quasi un reperto archeologico del passato. Anacronistico per i nuovi nati e, a volte, anche per gli altri. La “generazione Z” è particolarmente complicata: nuovi valori, un virtuale che viene prima del reale e il difficile rapporto nella triangolazione con insegnanti e genitori. Quello che so per certo è che, pur passando gli anni e mutando le tipologie di connessione e di relazione, un filo rosso resta costante: bambini e ragazzi trovano un nuovo modo di “parlare agli adulti” attraverso il teatro. Non solo viceversa. Ne sono certa. Lo vedo accadere ogni giorno sotto i miei occhi. Li vedo crescere di anno in anno, fino quasi a non riconoscerli più. Vedo i loro occhi diventare profondi, vedo mutare il loro pensiero, strutturarsi la loro capacità critica. E mettere radici sottili sottili. Un piccolo miracolo d’artigianato dell’umano, di quel fare semplice proprio del teatro, che è ancora stupore e meraviglia.
Lo spazio-tempo, qui dentro, diventa luogo d’ascolto di sé e dell’altro, manifestazione poetica e a volte dolorosa (mamma, papà, insegnante mi vedi? Esisto per te?) delle loro fragilità, dei sogni e delle prospettive, della ragione e dell’emozione. Di quel sorriso, di quel pianto improvviso o di quella considerazione fatta a voce alta, nella sala buia, che ti lascia quasi senza fiato.
Quell’oggetto rettangolare e luminoso non è il demonio assoluto, è chiaro, ma le milioni di notizie che ci propone, le chat, i social, non trovano forza di umanizzarsi in un corpo. Ecco, il teatro riempie questo vuoto e aggiunge consapevolezza, mantiene vicine le persone e dà senso alle storie. E’ “caldo” ed è bello e potente, a volte scomodo, proprio perché emoziona. Nel foyer di Koreja i bambini colorano, giocano, costruiscono, esplorano. Mangiano. A volte corrono, fanno amicizia. E fanno amicizia anche i genitori e scambiano idee, ricordi, domande. Si perché, il teatro, almeno quello che piace a noi, non ha risposte. Non ha soluzioni né certezze. Solo sentieri e voci. Tracce, occasioni. È un teatro che costruiamo giorno dopo giorno attraverso l’ascolto e la condivisione. Un teatro che riconosce e rivendica nel suo fare, l’autonomia del più piccolo e la sua dignità; un teatro in cui adulti e bambini, figli e genitori si comprendono nel senso più intimo del termine, nel senso di prendere, di contenere in sé, racchiudere. Un contenere che è includere; un capire che è afferrare. Ogni spettacolo è una proposta di gioco “serio” che rivolgiamo ai bambini, ai loro genitori, ai maestri e a tutti gli adulti. È un invito a scoprire la possibilità di pensare, di pensare da soli, di pensare insieme. Gli spettacoli che proponiamo alle famiglie o alle scuole chiedono sempre “qualcosa in più”. Un passettino al di là del semplice, del certo, del conosciuto. E già, perché il teatro non ti passa davanti, devi proprio andare a cercarlo. E non hai un telecomando per cambiare canale o spegnerlo. Sei lì, da solo in mezzo agli altri, anche se hai appena 3 anni e le emozioni bussano. Un piccolissimo, meraviglioso, prezzo da pagare per diventare grandi. Poco alla volta. Basta pensare agli spettacoli in cartellone quest’anno come il Cappuccetto Rosso di Zaches Teatro o Ricordi? del Teatro dell’Argine che affrontano tematiche “serie” o ancora Io e niente del Teatro Gioco Vita o La Gatta Cenerentola di Oltreponte Teatro in scena a febbraio.
Il teatro mi racconta ogni giorno che nessun tema è tabù per i bambini. Nemmeno il sesso, la malattia o la morte.
Spesso mi confronto con genitori spaventati, che non immaginano la forza del proprio figlio. Ognuno di loro ha risorse diverse per gestire le emozioni e, a volte, ne ha molte più di un adulto. Inaspettate. Pensare che non debbano avere paura, li spinge solo ad essere più fragili. E così li assolviamo dalla difficoltà di provare emozioni e di misurarsi con esse. Aiutarli a sviluppare abilità sociali ed emotive è una delle cose più importanti che possiamo fare per prepararli ad un futuro sano. Se raccontiamo loro l’importanza della “scelta” ognuno comprenderà l’importanza dell’assunzione di responsabilità. Fa anche questo il teatro. Questo proviamo a fare quotidianamente.

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immagine di copertina Parlare di migrazione è pop

Parlare di migrazione è pop

Visioni
di Eleonora Tricarico

Con i soliti termini, con le consuete frasi fatte, con i ragionamenti (il)logici che filano a pennello.

Quanta complessità in questo argomento che abbraccia un mondo intero e che, la maggior parte delle volte, è proprio di più abbracci sinceri che ha bisogno. Il tema della migrazione divide: una sola parola interpretata diversamente fa smuovere gli animi assopiti nel proprio angolino, per il gusto di dire qualcosa, ecco tutto.

Su questo delicato tema, però, dovremmo essere tutti un po’ meno in: meno intolleranti e meno indignati, puntare di più sui propri forse. Forse dovremmo  evitare di cadere in sterili dialoghi, forse dovremmo porre a noi stessi delle domande diverse. Forse.

Un errore condiviso in un mare di disinformazioni ed ecco perché sul tema della migrazione necessitiamo tutti di meno punti di vista ma di più visioni di qualità.

Confondere i principi dell’accoglienza e i diritti umani con un’ideologia politica è il primo errore che si compie prima di cadere nell’insana retorica, seguito da quell’inconsistente consapevolezza che ci sia una scala di degni. Chi si merita una bella vita e chi no. Ed è proprio qui che dovremmo ricominciare a costruire un pensiero laterale, attraverso gli strumenti giusti, quelli che non limitano, ma spalancano.

Inquesto mare enorme di distorsioni che da tempo una certa narrazione del fenomeno sta inoculando nella nostra Penisola, ciò che dovrebbe veramente affondare è l’ignoranza di chi chiude. Braccia, porti e menti.

Ed è qui che
subentra il teatro, con la sua educazione e con la sua cultura: ci siamo
occupati spesso di migrazioni proponendo una concreta opportunità per misurarsi
con questa tematica, per smontare le proprie certezze e ricostruire alternative
convinzioni. E fra pochi giorni abbiamo in cartellone Mario e Saleh, lo
spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina con Chadli
Aloui. Il rapporto tra i due attori sul palco costruisce un ottimo trampolino
di lancio su cui riflettere. Scoprire un’umanità nell’altro, non è poi così
difficile ed impossibile farlo, e Saverio La Ruina ci aiuta proprio in questo. Una
nuova narrazione è possibile, quello di cui abbiamo più bisogno è solo più
delicatezza e attenzione.

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immagine di copertina Bulli non si nasce, si diventa

Bulli non si nasce, si diventa

Visioni
di Gigi Mangia

Il bullismo è il male che ho dentro; la difficoltà di vivere le mie emozioni; la fatica di fare e trovare la via alla normalità. Io godo dell’inferno delle tue emozioni, che bruciano nel silenzio la tua vita, perché io non ti so rispettare.

Il 7 febbraio, giornata Nazionale del Bullismo,
teatro Koreja l’ha vissuta con gli alunni delle scuole medie della provincia
con lo spettacolo Terry. del teatro delle Briciole.
Bisogna dire, che la settimana scorsa la Camera dei deputati ha approvato la
legge sul bullismo – ancora in attesa di approvazione dal Senato – con la quale
è stato istituito un fondo di soli 200000 euro per tutte le scuole dell’intero
Paese. L’Italia rispetto al bullismo è indietro, mentre nelle scuole dei Pesi
d’Europa esiste la figura dello psicologo, in Italia tale servizio è affidato
alle figure obiettivo e manca un finanziamento per la formazione di tutti gli
insegnanti. Il bullismo è un fenomeno generale, che riguarda tutta la società e
interessa tutte le agenzie dell’educazione, dalla scuola alla famiglia, dal
quartiere alle biblioteche.

Bulli non si nasce ma si diventa.

Woody Allen, una voce importante nel mondo
cinematografico, attento indicatore del soggetto sociale, afferma che: “viviamo
in un tempo di crisi, della morte di Dio, di Carlo Marx, della fine delle
classi sociali, della società, della crisi dell’Io, della sua frantumazione,
dell’Io liquido, dell’emergere di tante forme dell’Io fragile”.

L’Attore Davide Giordano nel suo spettacolo ha
avuto il merito di aprire, con le sue domande, le porte delle emozioni dei
preadolescenti, di quello che Platone chiamava Emozioni dell’anima e poneva
alla base dell’educazione.

lo spettacolo comincia proprio domandando,
interessando il pubblico: “chi sono Io?”

Sono l’Io handicappato, sono l’Io spastico, sono
l’Io grasso, l’Io sbruffone, l’Io faccia di topo, l’Io muso di cane. Sono Io
quello che è incapace di parlare, che ha paura e si siede all’ultimo banco per
stare solo, isolato! Io sono l’Io che sta male. Il bullo è quello che ha perso
le parole giuste e usa quelle sbagliate per fare violenza, per creare consenso,
per affermare il suo potere, la figura del bullo trova il suo agio di
esercitare il male nella figura del camaleonte stampato sulla maglietta di
Terry che ha la facoltà di mimetizzarsi, di scomparire, di nascondersi, di non
essere visto. È il bullo che trova il suo agio e il suo terreno nel Web.

La Pedagogia di Terry è quella di mettere in
evidenza l’importanza dell’educazione, dell’intelligenza emotiva come principio
educativo e formativo, in particolare dei nati digitali nel primo quinto di
secolo del terzo millennio. La famiglia, la scuola, il quartiere, la città,
sono come le vene che attraversano la rete dei rapporti nelle affettività.
L’essere corpo, nel tempo e nello spazio, vuol dire avere la percezione del
passaggio dalla realtà reale a quella virtuale, nella quale l’Io è vuoto, è un
guscio senza sentimenti, privo di passioni.

Koreja è teatro di ricerca. La sua parola
bandiera, nell’azione culturale, è quella del rispetto, del riconoscimento
dell’Altro, della sua accoglienza. La sua battaglia condivisa con le scuole, è
quella dell’educazione aperta ed attenta alla generazione dei nati digitali
perché ritiene fondamentale che abbiamo il dovere non di criminalizzare lo
Smartphone o l’IPad, ma di educare al loro uso.

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LE PECORE DELLA LUNA

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TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Critica
di Eleonora Lezzi*

Una storia di donne, una storia di lavoro e
di sfruttamento, una storia di povertà e migrazione. Una storia attuale,
tragicamente e sorprendentemente attuale. E’ questo che l’autrice Laura
Scignano ci racconta con il suo Scintille attraverso la voce e i gesti di una
Laura Curino che si fa simbolo e persona.

Se non fosse per il costume secondo la moda
dell’epoca e per quelle vecchie macchine da cucire messe lì sulla scena, le
oggi tanto ricercate e alla moda Singer…se non fosse per quella singola lampada
ad olio che alla fine dello spettacolo si accenderà infondendo nella sala
l’odore  pungente del petrolio, potremmo
tranquillamente pensare che quella raccontata sia la storia di una delle tante
fabbriche tessili che oggi sfornano gli abiti che noi stessi indossiamo. Ma non
è così. Siamo all’inizio del ‘900, siamo a New York, siamo “all’America”; il
Sogno trasformatosi in un incubo.

Caterina, Lucia e Rosa Maltese diventano,
grazie ad una infaticabile e coinvolgente Laura Curino, la voce delle  146 vittime di quella scintilla che alle
16:40 del 25 marzo 1911 bruciò l’ottavo piano della fabbrica di camicette nella
quale lavoravano.

Il filo delle parole scorre veloce da una
all’altra, cuce e scuce legami, svela le complicità e i dissidi tra una madre e
le figlie, tra due sorelle, tra colleghe; ricama nitido il dissidio stridente
tra la necessità e la povertà che ti portano ad accettare qualsiasi condizione
e il bisogno di tornare a sentirsi umani, a veder riconosciuti i propri
diritti. Un ritornello che ci è abbastanza familiare, anche oggi.

Il tempo scorre, le parole si susseguono, i
toni caldi delle luci materializzano perfettamente sulla scena un tempo e uno
spazio che avvolgono lo spettatore in un calore che non è familiare, che non è
accogliente e confortante ma è un calore soffocante e claustrofobico, un calore
di fuoco, fumo e polvere mischiati insieme.

Si innesca la scintilla e tutto precipita, è
un attimo. All’inizio si fa fatica a realizzare quello che in realtà sta
succedendo, a comprendere e a sentire la trappola mortale; il racconto nelle
parole della Curino scivola con lucidità. In un attimo ti trovi ad essere
trascinata dalla folla che cerca disperatamente una via di fuga. La tensione
sale… Caterina, madre forte come una roccia, lotta controcorrente per salvare
le sue figlie. Deve credere che si salveranno, non le può abbandonare e non
puoi abbandonarle neanche tu! La commistione tra la bravura attoriale di Laura
Curino e la bravura autoriale e registica di Laura Scignano fa si che diventino
un po’ figlie e sorelle anche per te. La speranza si trasforma in stretta allo
stomaco quando per Lucia e Rosa lentamente si materializza la consapevolezza
dell’inevitabile che lascia fantasmi senza vita e ombre fredde; le luci
cambiano, impallidisce l’immagine, quella che percepiamo non è più la paura, ma
il terrore. La consapevolezza di essere le vittime sacrificali di
un’ingiustizia ma anche la speranza, viva fino alla fine, di Lucia che, proprio
grazie a quel sacrificio, le cose possano ancora cambiare.

Laura Curino passa da una all’altra, prima è
madre, poi figlia, poi adolescente, poi cento persone e anche di più, ma tutto
avviene senza caos e senza disordine. Agisce e parla con delicatezza, senza
eccessi, anche quando deve rappresentare una madre dura, d’altri tempi, una di
quella a cui la vita non ha riservato di certo tante carezze, o quando da un
momento all’altro cambia e diventa un’adolescente piena di vitalità e
speranze  o ancora quando inizia quel
vortice di eventi che porteranno al dramma…un’azione di una tensione forte che
esploderà poi, sempre con tenera delicatezza, nella voce ferita e svuotata di
una madre a cui la vita è sfuggita via dalle mani.

Nel buio della sala qualcuno piange, si
sentono i sussulti e si intravedono gli occhi lucidi. D’improvviso le figure
fino a quel momento solo evocate delle tante vittime diventano nomi, cognomi,
età; diventano donne e ragazze, potremmo dire bambine, ma anche di uomini. Una
cascata di nomi che alla fine si intrecciano e si mescolano affinché il ricordo
diventi valore concreto e non si dissolva nella massa indistinta e nei numeri.
I numeri sono per gli oggetti e non per le persone, non per donne e uomini con
proprie identità, con desideri, caratteri unici e insostituibili ciascuno con
un suo sogno e una speranza in quella terra nuova tanto lontana da casa.

Tutto infranto, tutto distrutto nell’attimo
di una piccola semplice scintilla.

La riflessione sul presente è inevitabile e
ti accompagna per tutto il tempo.

Alla fine dello spettacolo, durante
l’incontro con Laura Curino, qualcuno chiederà : “ma se la storia si ripete,
questa cosa del ricordare, di commemorare, serve davvero? ”

“ Beh, risponderà lei con una semplicità
disarmante – abbiamo altri strumenti noi?”

*Progetto Giovani Sguardi

prossimi Appuntamenti

1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina MBIRA e l’Africa: l’arte è sempre politica…e rito collettivo

MBIRA e l’Africa: l’arte è sempre politica…e rito collettivo

Interviste
di Annarita Risola*

intervista a Roberto Castello

Come salvarci dalla massificazione?
Coltivando la curiosità, leggendo, andando a teatro e al
cinema, documentandosi. Non permettendo insomma ad altri di pensare al posto
nostro, soprattutto a quelli che non lo sanno fare.

Perché MBIRA, perché l’Africa?

Perché il rapporto con l’Africa è una questione destinata ad avere una
enorme influenza sul nostro futuro. Credo sia utile, importante e urgente fare
lo sforzo di provare a capire culture così profondamente diverse per stabilire
con loro, a differenza di quanto gli europei hanno fatto in passato, un
rapporto di reale rispetto. A sud del Sahara sono in corso cambiamenti epocali
di cui sarebbe sotto ogni punto di vista giusto e utile provare ad essere
parte. Fare lo sforzo di provare a capire l’Africa è anche un’occasione per
vedersi dal di fuori e prendere atto del fatto che il mondo può essere guardato
anche in modo molto diverso da quello che a noi sembra ovvio e normale. Pensare
che sbarrare le frontiere europee all’Africa sia una cosa furba e utile, che
giova a noi e ai nostro figli, è semplicemente una scemenza. 

Come nasce l’idea del rito collettivo?

L’idea di fare sfociare lo spettacolo in una festa è nata quando è
risultato chiaro che la linea drammaturgica del lavoro avrebbe dovuto essere
quella di iniziare lo spettacolo con una coreografia scritta in modo
classicamente europeo per slittare progressivamente, attraverso il gioco e
l’improvvisazione, verso forme sempre più influenzate dall’estetica africana;
quando si è scelto insomma di ripercorrere idealmente quel processo che in arte
– in particolare in ambito musicale, ma non solo – in Europa è in corso dagli
inizi del ‘900.

Le ballerine si esprimono in una libera
improvvisazione o sono interpreti di uno schema prestabilito?

La cultura occidentale si fonda sulla scrittura, sulla riproduzione
esatta di un testo, sia esso una musica, una danza o altro, quella africana si
fonda invece sull’oralità, che considera l’inesattezza della memoria un
elemento creativo e implica sempre,

 almeno in parte, la capacità di improvvisare. Lo spettacolo,
come dicevo prima, scivola progressivamente da una modalità all’altra
trasformandosi a poco a poco in una festa in cui ciò che conta non è più la
perfetta aderenza ad una forma prestabilita, quanto la capacità di essere in
sintonia con ciò che sta avvenendo in quel momento.

Qual è l’intento di un simile lavoro?

Quello di provare a fare intravvedere modi diversi di affrontare le
cose.

Perché l’utilizzo di tanti codici e la necessità
di spiegarli?

Perché il teatro è per sua natura un fenomeno complesso ma è
uno. I generi dello spettacolo sono il retaggio di una visione del
fenomeno artistico, arcaica e obsoleta come il nazionalismo, di un’idea
semplicistica del mondo come mera sommatoria di fenomeni elementari. La scelta
di svelare i meccanismi è invece una critica implicita verso quei
tanti artisti occidentali che hanno guadagnato fama e denaro rubando o
rubacchiando ispirazioni ad altre culture e non hanno mai sentito il bisogno di
citare o ringraziare le fonti.

La realtà visionaria, che le ha permesso più volte
di vincere il premio UBU, dove la porterà la prossima volta?

Il ballo sociale continua ad interessarmi molto ed è molto che vorrei
realizzare un lavoro teatrale di gruppo basato su di esso

Quanto di lei coreografo e quanto di regista c’è
in quest’opera?

Non vedo una differenza fra i due termini.

Durante un workshop tenutosi dal 4 al 9 febbraio
2019 nell’ambito del Progetto Azione (intervista di Simona Cappellini), lei ha
detto che paradossalmente è sempre più difficile togliere che aggiungere,
perché?

Perché credo che la perfezione sia quando ogni elemento è necessario e
indispensabile. Individuare ed eliminare le ridondanze è uno dei compiti più
difficili. 

MBIRA potrebbe definirsi un tentativo di teatro
d’avanguardia, dove la parola, la musica e la danza sottendono dell’altro ed
insieme fanno politica?

L’arte è politica, sempre, indipendentemente dal fatto che tratti o
meno espressamente di argomenti politici. Non c’è d’altronde niente di più
politico di un’opera che si professa apolitica.

Penso che il dovere di un artista sia quello di indurre a riflettere, a
riconsiderare criticamente le proprie certezze. Per questo faccio il possibile
per scompaginare le categorie, tutte le categorie, anche quelle
dell’avanguardia, realizzando lavori che cercano di non corrispondere mai alle
aspettative ma risultino cionondimeno leggibili da chiunque.

*Progetto GIOVANI SGUARDI

Annarita Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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