Calendario

Gennaio 2022

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina La città delle parole  <br >nell’Europa dei muri

La città delle parole
nell’Europa dei muri

Visioni
di Gigi Mangia

Senza le parole, la città sarebbe come un silenzio vuoto fatto di spazi immobili, di marmi e bronzi muti. Sarebbe una città disegnata dalle ombre nella notte senza la luna. Le parole sono la vita per la città; non può farne a meno, perché sarebbe come un foglio bianco fuori dalla narrazione della storia priva di significati. La città, infatti, si è fatta con le parole, necessarie per vivere e per abitare. È nata per favorire l’incontro e per promuovere la cultura delle differenze e delle convivialità. Il pensiero ha fatto il passaggio e dalle ombre è diventato conoscenza, si è fatto progetto di socialità.

La città nella storia del Mediterraneo ha fatto la prova di declinare il pensiero di Atene con l’aspirazione della fede di Gerusalemme riuscendo a fare l’esperienza della cultura cristiana. Era quella la città aperta senza mura, pronta per l’accoglienza. Ora è cambiata, ha paura, si è chiusa e percepisce nello straniero il suo nemico. 

Anche l’Europa è cambiata. Ora costruisce muri alti, come quello della Polonia in lamiera, alto 5 metri e lungo 180 chilometri: muri per difendersi, per impedire il passaggio agli immigrati in fuga dai loro paesi in guerra. L’Europa dell’Illuminismo fa passi indietro perdendo i valori della cultura del rispetto della persona alla base del progetto dell’Illuminismo Umanistico affermatosi alla fine della Seconda Guerra Mondiale come superamento della città della morte quale fu il campo di Aushwitz.

Per rinascere servono parole nuove. Per abitare lo spazio e vivere il tempo della “polis delle parole” serve una grammatica capace di accendere il desiderio di ascoltare l’Altro, di guardare i suoi occhi e non voltargli mai le spalle. Bisogna lavorare per liberare la città dalle catene dell’indifferenza che impediscono la ricerca della conoscenza e dell’accoglienza del diverso.

La città delle parole può essere la strada, il cantiere, in cui lavorare per una città dove lo studio del passato e la memoria possono servire per affermare la responsabilità del presente, evitando di perdere
la lezione della storia.

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina La fotografia taglia le unghie alla censura

La fotografia taglia le unghie alla censura

Visioni
di Gigi Mangia

Il 21 Gennaio, giornata mondiale degli abbracci, è arrivato in Italia il bambino Mustafa accolto dalla città di Siena. Il piccolo Mustafa di 5 anni , è nato senza gli arti perchè la sua mamma ha respirato i gas chimici delle armi usate nella guerra siriana. Il padre è mutilato per aver perso una gamba a causa dello scoppio di una bomba.

Le 2 vittime innocenti saranno curate al centro di Butrio in Italia specializzato per le protesi, famoso per aver fornito le protesi agli atleti paralimpici e ai grandi invalidi del lavoro. La foto di Mustafa , del fotografo turco, ha commosso il mondo. Nella foto si vedono le grandi mani del padre, con la stampella, alzare verso il cielo il bambino sorridente e felice quando i suoi occhi sono all’altezza degli occhi del padre. La foto è uno schiaffo alla guerra siriana e alla politica incapace di trovare la pace tra i popoli. La fotografia è importante quando fa la differenza, quando non appiattisce nel presente la comunicazione ma la spinge e la proietta oltre la cronaca.

La fotografia ha un grande ruolo è una grande forza. La fotografia continua ad essere un opera d’arte una ricerca estetica. La sua vita però non è più quella di stare esposta sulle pareti dei musei, ma di andare nelle pagine dei giornali, nei siti come nei telefoni smartphone per informare, per denunciare la guerra, la violenza e il dolore degli esclusi. La fotografia è diventata un potere disponibile è facile democratico nella denuncia. Il fotogiornalismo ha tagliato le unghia alla censura dei tiranni. Sono molti infatti i giornalisti finiti in prigione oppure fatti fuori uccidendoli. Il cinema e il teatro, la fotografia e la musica sono impegnati per denunciare le guerre e per difendere invece tutti i valori civili conquistati con le dure lotte fatte contro tutti i regimi di ogni colore politico.

L’ arte non si piega a nessuna forza , obbedisce solo all’ uomo nato per essere libero.

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LE PECORE DELLA LUNA

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immagine di copertina È forse questa la vera “Misericordia”?

È forse questa la vera “Misericordia”?

Critica
di Annarita Risola

Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! (A. Manzoni -Promessi Sposi- cap. XXI)

E’ il ticchettio ritmato e veloce dei ferri da maglia ad accendere l’attenzione del pubblico e le luci in sala. In fondo al proscenio su una linea orizzontale, a quattro sedie, si alternano giocattoli e cavallucci. Partendo da sinistra, siedono due donne, un giovane uomo ed un’altra donna. Le prime due parlano a bassa voce e se la ridono di gusto, la terza, seduta a destra sferruzza, di tanto in tanto le guarda con aria triste e tende loro l’orecchio, nel tentativo di capire ciò che si stanno dicendo. Vicino a lei un ragazzo, magro, pallido, con addosso una veste a fiori piuttosto malridotta, si muove in maniera strana, dondola, proietta il busto in avanti con dei movimenti a scatto e ripetitivi.

Intanto una delle due donne si alza, viene avanti e guarda il pubblico, la segue l’amica, poco dopo si avvicina anche la terza, quella dai capelli rossi e ricci, raccolti come se fosse un pon pon. Le donne però continuano ad ignorarla, finché quest’ultima non grida “Arturo” e questi immediatamente corre verso di lei. Ma perché Bettina lo ha vestito così? Questa è la domanda che Nuzza e Anna le pongono. Quel vestito preso dai rifiuti apparteneva ad una di loro, viene accusata di rubare il cibo dal frigo, di non pagare l’affitto…ma Arturo è lì che ascolta e l’abbraccia forte. La lascia solo dopo essere stato chiamato più volte da Anna, che gli mostra una scatola nella quale c’è una collana e una foto di Lucia, la madre di Arturo mentre era incinta.

“Oh che bel castello marcondirondirondello”, sulle note di questo girotondo, inizia il racconto dell’infanzia di Arturo, che ora indossa una vestaglia fiorata da donna e gira intorno a sé stesso, al centro di quella che ora è la sua stanza, con lo sguardo felice e con in mano uno scopino per la polvere. “Dove c’è un bambino c’è sempre la crianza” ricorda Anna, mentre come fosse una favola racconta la storia di Lucia, loro amica e collega di quel particolare mestiere, che la portò ad incontrare quell’uomo detto “Geppetto” poiché falegname. S’intratteneva con lei come tutti gli altri, ma le portava dei dolci e lei si era innamorata, voleva cambiare vita e così era rimasta incinta, lui però aveva il vizio di bere e diventava violento, la picchiava, quella sera più delle altre volte, persino sulla pancia… perciò Arturo nacque di sette mesi e Lucia morì subito dopo. “Ninna nanna, ninna nanna, nessuno ti vuole bene come la mamma”.

Cambia l’atmosfera, le donne sciolgono i capelli mentre Arturo balla e ancora continuano a spogliarsi, tutto acquista un ritmo più veloce, movimenti ammiccanti, sguardi seducenti, simulazioni di amplessi, e Arturo le imita, indossa i tacchi e passeggia avanti e indietro finché non prende un sacco nero e lo svuota sul pavimento, facendo rotolare qua e là un’infinità di giocattoli che prontamente Anna, Nuzza e Bettina
cercano di raccogliere, veloci nel gesto, quanto nel modo di parlare. Ma è tempo di riposare, perché presto passerà il pulmino che lo porterà in una nuova casa, con una stanza tutta sua, con la finestra dalla quale potrà vedere il sole.

Ora anche Arturo aiuta a raccogliere i suoi giocattoli consentendo alle donne di sedersi e a guardarlo mentre balla, sempre meno goffo, come un uccellino che sta per spiccare il volo, non è più un ragazzo fragile ma una libellula, un danzatore Sufi senza gonna, che ruota, ipnotizza, incanta. Nulla sembra avere più importanza e nulla pare poterlo fermare…tranne il suono di un carillon che lo stordisce tanto da farlo addormentare su di una piccola copertina celeste, adagiata a terra, sulla
quale si rannicchia e dalla quale si rialza pur continuando a dormire, ormai sonnambulo, pare quasi cadere mentre le donne, sempre lì, sono pronte a prenderlo.

La canzone de “Le avventure di Pinocchio” (memorabile leitmotiv di Fiorenzo Carpi), dà il via alla sua vestizione, che esegue in maniera autonoma, ad uno ad uno prende i suoi vestiti che sono adagiati sulla sedia, la camicia, i pantaloncini, le scarpe i cui lacci non annoda e pur ricominciando a ballare, inseguito dalle tre donne, non cade. Ma ecco da lontano si ode il suono della banda che lo porterà alla sua nuova vita e alla sua splendida stanza dalla quale ogni mattina “Trase u suli”.

La valigia è pronta, lo scrigno con la collanina appartenente alla defunta madre Lucia pure, poi, la colletta, soldi presi dal petto, dalla scarpa o semplicemente dal borsellino, quest’ultimi sono quelli di Bettina, che gli regala ben 300 euro, il carillon, il cuscino della culla, il primo maglioncino ed il bambolotto di Charlie Brown, ed ancora i dentini di latte e le favole della buonanotte. Ecco, Arturo è pronto per andare…un ultimo sguardo, un ultimo saluto… e poi la parola “Mamma”
che fa girare tutte e tre di scatto, ancora un ultimo saluto prima che il suono della banda lo catturi e lo accompagni verso il suo nuovo destino.

Madri, amiche, nemiche, compagne, colleghe…semplicemente donne. Donne che si alleano, vivono insieme e decidono ciò che è meglio per Arturo, quel figlio adottato da tutte e tre, senza pensarci un attimo, come dono d’amore nei confronti della loro amica Lucia. Madri sin dal nome “nomen atque omen” diceva Plauto. Anna, Nuzza e Bettina, ossia Anna la madre di Maria, Nuzza o Annunziata cioè Maria e Bettina o Elisabetta la cugina di Maria, insomma le donne dell’infanzia di Gesù/Arturo “la stella più luminosa” (così come è definita la stella della costellazione del Boote).

Suggestivo il fermo immagine di una maternità trina, che abbraccia la purezza e l’ingenuità di un ragazzo che pare anche comprendere la necessità di andare via da quella casa, ed in qualche modo di crescere, raccogliendo i suoi giocattoli e vestendosi per la prima volta, in
maniera autonoma. Un distacco sofferto ma inderogabile. Donne unite anche dalla necessità economica e da quella scelta lavorativa che fa dei loro corpi oggetti, che si mostrano, che ostentano una sessualità non necessariamente sensuale ma semplicemente primitiva, che si offrono allo sguardo di un pubblico chiamato suo malgrado ad osservarli.

L’accenno alla violenza perpetrata nei confronti di Lucia da parte del corteggiatore/cliente e la sottolineatura del senso di colpa delle altre per non aver denunciato il fatto, è un valido esempio di ciò che ancora spesso accade in ambienti degradati, dove la violenza domestica pare sia la norma e tutto venga minimizzato per evitare ritorsioni o azioni violente ben più gravi; dove si tace per paura e non si denuncia per
sfiducia nelle istituzioni.

Il tema della disabilità è affrontato senza enfasi, non c’è retorica né pietismo, c’è solo l’urgenza di prendersi cura di una creatura che necessita di affetto e di assistenza, quel “fare” spontaneo e naturale non necessariamente delegato ad una madre biologica ma ad una, ed in questo anomalo caso a tre “donne”, che si donano, si offrono con generosità e si privano anche della propria dignità pur di affrontare il domani, esistere e resistere.

Emma Dante, a suo modo, restituisce potere ai sentimenti, all’essere umano e ci consente di andare oltre la forma, la grezza superficie, a scavare in terreni aridi nei quali trova pur sempre rivoli di cruda poesia. La scelta di recitare parti del testo in dialetto siciliano, per l’esattezza quello palermitano (n.d.r. Emma Dante è nata a Palermo), è quasi come un marchio di fabbrica che le consente di contestualizzare e rendere prezioso quel linguaggio ricco di contaminazioni, che diventa suono, melodia, che solca il terreno e dissotterra scheletri, violenze
familiari, frutto di arretratezza culturale e morale.

Il dialetto che da suono si fa racconto e da melodia narrazione, costruisce una vera e propria partitura, che insieme al ritmo sottolinea emozioni e trova un suo fondamento interpretativo ed un suo peculiare significato. Evidente il riferimento a quel teatro nel teatro, che nasce con Aristofane e Plauto, che racconta, intreccia, rimanda a luoghi e a tempi lontani, ma che a differenza di Pirandello non sfugge dalla realtà oggettiva e non si nasconde dietro un mondo irreale, ma l’affronta e
l’analizza, con la dichiarata volontà di manifestare  l’importanza di prendersi cura di qualcuno, anche se quel qualcuno non ci appartiene, e di fornirgli gli strumenti giusti per poter divenire autonomo ed infine, restituirlo al mondo non appena ci si è resi conto che è pronto a volare. Dunque, è forse questa la vera “Misericordia”?

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immagine di copertina La memoria aiuta il respiro delle parole

La memoria aiuta il respiro delle parole

Visioni
di Gigi Mangia

Il 27 gennaio, ricorre la Giornata della Memoria, voluta da un padre dell’Europa, quale fu Carlo Azelio Ciampi. È una giornata rivolta ai giovani per non dimenticare, ma anche per crescere nello studio e avere la conoscenza della Storia. La memoria vive e conserva la storia. Il respiro delle parole apre la mente alla visione dei luoghi e dei volti.

Le parole hanno la forza di far vedere i segni distruttivi della guerra sulle città. Sono la voce della violenza degli esclusi e dei mutilati. Le parole raccontano i segni delle torture dei corpi disperati nei lager.

Le parole sono il dolore muto dei bambini in cammino a piedi nudi nel ghiaccio del freddo inverno.

Le parole sono anche la storia di chi muore in mare senza lasciare un segno.

Ancora le parole raccontano i corpi dei prigionieri ebrei finiti in cenere nelle camere a gas naziste.

Il respiro delle parole serve per conoscere e sentire la storia e quindi per avere la capacità di partecipare e non voltare le spalle all’evidenza del dolore e della perdita dei valori civili.

Senza memoria la mente finisce nel buio e l’uomo perde la capacità di ascoltare. Ascoltare le parole aiuta a fare il cammino con gli altri verso un futuro senza la paura del diverso e il pregiudizio della pelle.

Carlo Azelio Ciampi credeva ad un’Europa unita. Per rendere possibile il suo sogno, spese tutte le sue forze.

Il presidente Ciampi capì che, per raggiungere l’unità politica, l’Europa dei popoli doveva fare i conti con la storia del secolo “breve” e con le ferite dei morti delle due Guerre Mondiali.

Per fare la nuova Europa per Carlo Azelio Ciampi bisognava avere la memoria del passato e soprattutto saper respirare le parole della storia.

La storia non si cancella.

Così nei versi giovanili il poeta Carmelo Bene:

“no, non stupirti

delle pagine audaci

che mente umana ha scritto.

Sono ruderi. Al loro posto

un tempio sorgerà.”

Carmelo Bene, Poesie Giovanili, Adriatica Editrice Salentina, Lecce 2009.

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immagine di copertina La variante Omicron mette a dura prova la genitorialità e la scuola già in grandi difficoltà

La variante Omicron mette a dura prova la genitorialità e la scuola già in grandi difficoltà

Visioni
di Gigi Mangia

Il Governo di Mario Draghi, al suo insediamento di un anno fa, aveva scommesso di tenere la scuola aperta e la didattica in presenza. Per la scuola il Governo ha fatto molto, investendo soldi e riconoscendo centrale e strategica, la formazione dei giovani. La lotta contro la pandemia del Coronavirus si è complicata, è diventata più difficile
con le varianti, soprattutto con Omicron il cui contagio interessa i
preadolescenti, compresi i bambini. La comunicazione degli esperti e delle agenzie non è stata chiara ma ondivaga e contradittoria. Così: “il Coronavirus non è una minaccia per la salute. Gli aerei “CDC” richiedono la quarantena per i viaggiatori internazionali. Non toccate le superfici, non avete bisogno della mascherina, al contrario dovete metterla. Le superfici sono rischiose evitate di toccarle”. L’ultimo decreto del Governo del 5 gennaio, non ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, con le diverse modalità delle quarantene dalla scuola dell’infanzia alla superiore di secondo grado, ha ulteriormente aumentato la confusione coinvolgendo le famiglie, le quali si trovano nel disordine più
completo.

Ora non ci deve sorprendere se le persone sono disorientate su come affrontare il problema e avere fiducia nella scienza e quindi nel vaccino. Bisogna superare la paura e avere fiducia nella scienza. Un genitore per vaccinare il figlio deve credere, deve essere certo di decidere per il bene e per la salute del proprio bambino; deve essere
aiutato a superare il trauma della puntura del proprio figlio, infine deve essere portato a credere che solo il vaccino può superare e favorire una crescita sana e regolare per il figlio. Il genitore deve essere guidato a portare fuori e lontano dalla paura del virus il figlio, curando e promuovendo relazioni sociali come il gioco, la vita di comunità, la partecipazione alle attività culturali. L’isolamento oltre ad essere una malattia, è anche la causa della perdita di autostima, fondamentale per superare la paura di non farcela. Essere genitore oggi è davvero impegnativo, perché si è chiamati ad avere un ruolo inedito nell’educazione e nella crescita sociale ed intellettuale del figlio causato dalla pandemia, la quale ha cambiato le regole di come abitare
lo spazio e vivere il tempo. Per superare la crisi, bisogna credere e avere fiducia nella e per la scuola, in particolare, mantenere la didattica in presenza perché il sapere, il conoscere e il fare, sono tutti verbi di comunità. La scuola è il tempo della vita in cui non si è mai soli, ma si vive sempre di relazioni scambiando sentimenti, gesti e parole. La scuola è la casa dove l’essere da bambino diventa uomo: essere sociale.

Un felice ritorno a scuola e un buon inizio di anno scolastico 2022.

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TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Intervista a Carolina Pizarro

Intervista a Carolina Pizarro

Interviste
di Annarita Risola

“Non ho eredi né ho un’eredità da lasciare. Il mio insegnamento non si trasmette né si estingue. Evapora e cade come pioggia sulla testa di chi non se l’aspetta” (Eugenio Barba).

A conclusione dello spettacolo “L’Albero”, andato in scena il 18-11-21 presso i cantieri teatrali Koreja, regia di Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret, incontriamo l’attrice Carolina Pizzarro.

D: Chi è Carolina Pizarro?

R: È difficile rispondere alla domanda: “chi sono io?”, perché “l’io” si costruisce in base alle esperienze che si vivono e alle persone che si incontrano lungo il cammino. Per questo cambiamo continuamente, anche se manteniamo lo stesso nome da quando nasciamo. Io sono nata a Santiago del Cile nel 1981, in un quartiere molto povero. La mia infanzia è stata segnata dalla dittatura militare: ordine, disciplina e militari nella scuola. Sono la figlia di Margherita, che ha lavorato per anni occupandosi di malati terminali, accompagnandoli fino alla morte.

Da lei ho imparato il valore del tempo presente, a prendermi cura della mia salute e l’importanza di proteggere un altro essere umano. Il nome di mio padre è Evaristo, è andato in pensione dopo aver lavorato in fabbrica per 40 anni. Ha sempre avuto un buon senso dell’umorismo, anche nei momenti più difficili. Il loro esempio mi ha sempre aiutato, specialmente in questo anno molto complesso.

Oggi, a 40 anni, posso dire di essere una persona più coscienziosa, flessibile, meno giudicante e con un buon senso dell’umorismo. Dal 2015 vivo in Danimarca, con mio marito Luis Alonso e nostra figlia Eloísa, che ha 4 anni, perché lavoriamo come attori all’Odin Teatret e come registi di Ikarus Stage Arts: un gruppo composto da giovani provenienti da vari paesi e discipline artistiche. Lavoro al Nordisk teaterlaboratorium- Odin Teatret come attrice, regista e ricercatrice.

Nel 2007 ho conseguito la laurea in Lettere e come attrice presso l’Università del Cile. Dal 2010 sono allieva di Lakshman Gurukkal dall’Hindustan Kalari Sangham – Kalari Gram, India. Dal 2015 sono un’attrice dell’Odin Teatret, sotto la direzione di Eugenio Barba.
Dal 2017 sono direttrice e fondatrice di Ikarus Stage Arts. Partecipo
attivamente a progetti legati a Magdalena Project e Mujeres per la cultura. Prendo parte a convegni e festival e presento il mio lavoro teatrale mediante seminari, dimostrazioni di lavoro e talk, organizzati da istituzioni culturali, Università o società indipendenti di diversi paesi, in America, Europa e Asia.   

D: Come nasce il tuo amore per il Teatro?

R: Credo che le persone che incontri e le esperienze che vivi, contribuiscano a definire ciò che desideri e ti ispirino a scoprire qual è la tua vocazione. A volte, a scuola, ho partecipato a laboratori teatrali, ma non ricordo di aver mai sognato di fare l’attrice.

All’età di 12 anni ho cominciato a lavorare part-time in un negozio di calze, perché volevo essere indipendente. Per decisione dei miei genitori ho studiato ragioneria e all’età di 17 anni ho iniziato a lavorare in un ufficio. Avevo 19 anni, quando ho visto un cartello per strada: “Farò ciò che ho sognato o non farò nulla.” Questa frase mi toccò profondamente (Solo più tardi ho saputo che era di Antonin Artaud; a quel tempo era lo slogan della scuola di teatro “Facetas”).

Quando dissi a mio padre che volevo fare l’attrice, mi rispose che l’arte non era per i poveri. Mi disse di dimenticare quell’idea. Ugualmente decisi di studiare recitazione e pedagogia teatrale: di notte. Ero al terzo anno, con Andrea Ubal, quando capì che il talento non bastava, perché fondamentale è il tempo che si dedica al lavoro. Decisi
di lasciare la scuola di recitazione e anche il mio lavoro di contabile per entrare all’università.

Mio fratello Edson, che oggi è un insegnante di lingue e poeta, mi spronò ad avere coraggio; in diversi momenti della mia vita mi ha fatto presente che non c’è niente da perdere quando non si ha niente, quindi, è sempre meglio “fare” che “non fare”. Se volevo essere un’attrice professionista, non bastava studiare part-time, doveva essere con totale dedizione.

Quindi cominciai dal principio, all’Università del Cile, dove ho conseguito un Bachelor of Arts come attrice professionista nel 2007. Inizia così il mio amore per il teatro, una strada che sto ancora percorrendo. Grazie al teatro ho iniziato a disobbedire, a decidere
per me stessa e a difendere ciò in cui credo. Ho imparato che puoi plasmare il tuo destino.

D: Quando avviene il tuo incontro con l’Odin Teatret?

R: Era il 2006 ed ero al terzo anno di università, mi preparavo per gli esami di chiusura del semestre, seppi che Eugenio Barba e Julia Varley sarebbero stati in Argentina, per tenere un incontro con degli studenti. Anche se non mi fu dato il permesso di poter saltare i corsi all’università per due settimane, non esitai a viaggiare per incontrarli.

L’esperienza fu straordinaria, quindi chiesi ad Eugenio Barba se potessi fare un’esperienza con loro in Danimarca: lui mi rispose di no. Mi consigliò di tornare in Cile, finire gli studi e di formare un gruppo. Lo feci! Fondai la Triskel Performing Arts e presentammo uno spettacolo. Nel 2008 seppi che il gruppo Yuyachkani, stava organizzando un incontro dell’Odin Teatret a Lima. Decisi di andare, viaggiai, vidi gli spettacoli e partecipai a vari workshop ed incontri. Di nuovo, sentì di vivere
un’esperienza unica, in particolare, quella volta, fui completamente catturata da Torgeir Wethal.

Alla fine di uno degli spettacoli, chiesi ancora una volta ad Eugenio Barba, se potessi andare in Danimarca. Questa volta mi rispose di sì, a patto che un membro del gruppo accettasse di essere responsabile del mio processo, dicendomi “non credo che nessuno accetti, perché hanno già, troppo lavoro.” Non mi scoraggiai e una sera, durante una cena chiesi a Julia Varley se potessi essere sua allieva.

Con mia sorpresa, lei accettò. Impiegai due anni per trovare i fondi per poter viaggiare dal Cile alla Danimarca. Stavo lavorando ai vari compiti che Julia mi aveva assegnato, quando il Cile fu colpito da un forte terremoto di 8,3. Fu devastante. Era il febbraio 2010. Ero sotto shock e non riuscivo più a trovare la motivazione per continuare a lavorare in teatro. Julia mi incoraggiò a recarmi subito ad Holstebro, ad aprile, per studiare e fare ricerca sulla tradizione del passaggio di esperienza all’Odin Teatret.

Per tre mesi ebbi l’opportunità di imparare anche con Else Marie Laukvik, Roberta Carreri e Augusto Omolú. Vidi prove e spettacoli. Il risultato di questi mesi di lavoro, fu il mio spettacolo personale “Tierra de fuego” diretto da Julia Varley, che ancora oggi continuo a
presentare. Julia Varley, Else Marie Laukvik e Roberta Carreri sono state ed ancora oggi sono, le mie grandi insegnanti. Quel viaggio ha rasformato la mia vita, sentivo di voler stare vicino a queste persone.

D: Cosa significa far parte di una compagnia teatrale ed in particolare dell’Odin Teatret?

R: È mostruosamente bello!

Far parte di un gruppo come l’Odin Teatret ti dà la possibilità di poter crescere profondamente a livello personale, professionale
e penso anche, a livello spirituale. La mia relazione professionale con Eugenio e Julia è iniziata 15 anni fa. Con gli altri membri del gruppo undici anni fa. In un certo senso, è più di un rapporto di lavoro: sono i miei insegnanti e allo stesso tempo i miei colleghi.

Provo per loro amore incondizionato, rispetto e profonda ammirazione, senza mai dimenticare che anche loro sono esseri umani e che quindi possono sbagliare. Non ho mai chiesto di far parte del gruppo. Non
era quello che stavo cercando, né tantomeno me lo aspettavo, ma quando Sofía Monsalve decise di lasciare il gruppo nel 2015, Eugenio mi chiese se volessi prendere il suo posto. La mia prima reazione fu quella di piangere, poi di paura, di sorpresa… non so bene. Mi sentì come “Un mortale invitato a stare tra gli Dei”.

A quel tempo avevo deciso di andare in India, il mio maestro mi stava aspettando ed all’improvviso, arrivò la proposta di far parte dell’Odin Teatret. Sapevo cosa avrebbe significato trasferirmi in Danimarca, lasciare i miei progetti ed in un certo senso, rinunciare alla mia
libertà. Dovevo scegliere e non è stato facile. Sapevo che dovevo donarmi completamente. Ed io sono sempre stata uno spirito libero, ma alla fine accettai, per amore, per rispetto e perché sentivo di aver ricevuto molto da loro. La mia lealtà e gratitudine erano più forti della paura o dell’insicurezza che provavo.

Mi rendeva felice poter lavorare con loro. Quindi, guardai la paura a testa alta, misi il mio ego in tasca e decisi di vivere nel momento presente. “Ci proverò”, mi dissi. Con Julia ho imparato a lavorare da
sola, con Else Marie ho imparato a comporre e con Augusto la disciplina,
l’ironia e il coraggio. Roberta mi ha aiutato a creare materiale scenico, Frans a cantare in danese e Jan a suonare le canzoni con l’ukulele. Iben mi ha dato consigli per ampliare la proiezione della mia voce e Donald mi ha insegnato a camminare sui trampoli. Kai è stato sempre disponibile, Tage mi ha sostenuto con il suo sorriso, le sue parole e la sua presenza ed Elena è stata sempre con me, mi ha protetta come una compagna, incondizionatamente.

Tutto questo ha reso possibile l’impresa di essere pronta, in soli due mesi, e poter partecipare a quattro spettacoli di gruppo dell’Odin Teatret, con personaggi totalmente diversi. Oltre ad unirmi alle prove di una nuova creazione: “L’Albero”. Lunghe ore di lavoro, ma non ero sola. Ci furono tre “premiere” a una settimana di distanza l’una dall’altra, più una quarta dopo altre tre settimane. Pazzesco, impossibile… ma ce la facemmo. Eugenio mi disse: “E l’hai fatto!” Gli risposi: “Sì, qui puoi fare ciò che ritieni impossibile”. Non dimenticherò mai i suoi occhi luminosi con un ampio sorriso.

Guardare attori più anziani lavorare con Eugenio Barba come regista, sapendo che lui persegue l’impossibile, è una sfida continua. Ma è una cosa diversa vedere che puoi farlo anche tu, un semplice mortale. Quindi, per me, far parte dell’Odin Teatret significa sorprendermi, aprirsi per dare tutto ciò che hai, come risultato di un costante apprendimento
di te stesso e dei tuoi limiti. Imparare a prendere decisioni coerenti con tutto ciò.

Anche se Eugenio Barba intimidisce, a volte. Oggi per me è importante accettare che per Eugenio Barba non sarà mai abbastanza, accettarlo
fa bene, anche se a volte può essere doloroso, ma va bene. Significa trovare un sano equilibrio tra ciò che puoi dare e i tuoi limiti. Significa anche imparare, che se hai dato il massimo, ma il tuo massimo non basta, va bene, perché alla fine, tutto quello che fai, lo fai per te stesso, per un bisogno personale, non per alimentare il tuo ego o diminuire la tua insicurezza con l’approvazione esterna.

D: Cosa rende l’Odin Teatret differente dalle altre compagnie?

R: Non so se posso confrontare l’Odin Teatret con altre compagnie, ma so che è molto, molto diverso. L’Odin Teatret è nato 57 anni fa, ed ancora oggi, le stesse persone continuano a lavorare insieme. Hanno trasformato una fattoria in un teatro a Holstebro: Tage Larsen, è stato un valido aiuto, perché aveva lavorato come carpentiere e muratore.

Oggi ogni angolo del teatro ha una sua propria storia e ci sono oggetti da tutto il mondo. Abbiamo un regista di 85 anni, che si arrampica sugli alberi, si butta a terra e corre per i prati come un bambino. Litiga con il vento quando vuole che gli alberi volino e sempre vuole, pretende… l’impossibile.

Quando chiedi ad Else Marie Laukvik, attrice arrivata nel gruppo quando aveva 19 anni, qualcosa in così tanto tempo?”. Lei vive solo nel momento presente, giorno dopo giorno, ma continua a innervosirsi come una bambina quando Eugenio va a vedere una sua prova. Oggi ha 77 anni e guardarla esibirsi è sempre una delle esperienze più affascinanti che abbia mai fatto.

Siccome sono l’attrice più giovane del gruppo, in molti, spesso mi chiedono: “Quando si svolgono le audizioni in Compagnia?”, ma quando rispondo che non si fanno audizioni e che nell’Odin ci sono sempre gli stessi attori da molti anni, mi chiedono come ho fatto ad entrare io, allora. “A volte, sono le decisioni a prendere te…” direbbe Roberta Carreri.

La tradizione del passaggio di esperienza è fondamentale, perché pedagogia e ricerca hanno un peso molto forte all’interno del gruppo. In questo le donne sono molto attive, scrivono libri, hanno progetti e mettono in piedi lavori individuali che nascono di propria iniziativa.

Non c’è la necessità di avere uno spettacolo nuovo ogni anno, anzi, al contrario uno spettacolo può impiegare anche tre anni per essere pronto. Forse è questa la ragione per cui, dopo due anni senza mettere in scena “l’Albero” ci siamo ricordati tutto. Ci sono voluti solo due giorni di prove per recuperare lo spettacolo, ed essere pronti per il nostro ultimo tour in Italia, dove ci siamo esibiti al Teatro Nuovo Abeliano di Bari e poi al Teatro Koreja, a Lecce. Infine, siamo un gruppo nel quale si parlano molte lingue. A volte non ci ascoltiamo, molti dei membri del
gruppo usano già le protesi acustiche, ma alla fine ci capiamo. E ripensandoci…sì, credo che ci sia qualcosa di davvero unico e diverso…ma questo, lo tengo per me.

D: L’Odin è una piccola comunità, qual è l’aspetto che più ami e quale meno?

R: Per me, più che una piccola comunità, l’Odin Teatret è come un pianeta. Abbiamo un modo di lavorare molto particolare che poche persone capiscono. Quello che mi piace di più è vederli sorridere, quando creiamo insieme, mostriamo spettacoli e andiamo in tour, perché in questi momenti si dimenticano le molte differenze che ci sono tra noi (e non parlo solo della differenza di età).

Li amo e li rispetto profondamente, anche se lavorare con loro non è affatto facile. Ma ciò che abbiamo in comune è molto forte, grande rispetto per il lavoro, che tuteliamo al di là delle differenze personali. A questo proposito, alcune parole di Eugenio: “Contano
solo le nostre azioni. Da loro traspare l’integrità che guida la disciplina del lavoro e che ispira legami aldilà di quelli professionali. Le nostre azioni possono essere fraintese, generare malintesi, essere considerate il contrario di quello che desiderano essere. Ma quello che dobbiamo fare, dobbiamo farlo, e non porre domande, non porre domande”.

D: Quale approccio metodologico consiglieresti di seguire a chi voglia intraprendere la difficile strada del lavoro teatrale?  

R: Ci sono persone che si definiscono ricercatori teatrali, frequentano tanti laboratori, con gruppi o insegnanti di varie tradizioni, ma senza mai approfondire in maniera particolare, nessuno di essi. Sfruttano poi gli insegnamenti ricevuti, insegnando ad altri o cercando di usarli per creare, ma questo a mio avviso, sarà sempre solo un approccio al lavoro, a un livello superficiale.

Personalmente, non credo che questo sia il percorso migliore per la realizzazione professionale, perché si corre il rischio di essere “turisti” e non “abitanti” della scena teatrale. Un consiglio, per chi vuole lavorare in teatro a livello professionale, è quello
di cercare, prima di ampliare le proprie referenze. Per questo si possono
vedere altri gruppi, assistere a spettacoli di altre discipline artistiche, guardare film, visitare musei, leggere libri o ascoltare musica.

Oggi c’è una vasta gamma di possibilità e oggi più che mai, abbiamo accesso a innumerevoli quantità di informazioni. Tutto questo può servire, ma solo per ispirazione. Poi devi prendere una decisione: fare una scelta ed agire di conseguenza. Il rispetto di tutte le tradizioni è importante, volerlo apprendere anche, ma dobbiamo sapere chi siamo e le ragioni che ci spingono in quella direzione.

Nella relazione diretta con un insegnante, è importante capire che è un’esperienza di responsabilità reciproca e quindi preziosa. Per questo ritengo necessario che le persone scelgano “una opzione”, la approfondiscano con disciplina e rispetto fino a trovare la propria autonomia. Nel mio caso, nel 2010 ho deciso di continuare il mio percorso di apprendimento solo con l’Odin Teatret e con l’arte marziale kalarippayattu, sotto la guida del mio maestro Lakshman Gurukal.

Sono ormai undici anni, che continuo il mio lavoro, cercando un punto di incontro tra l’arte marziale e la formazione teatrale per la creazione di spettacoli, sia come attrice, che come regista e pedagoga. Oggi penso che questo lavoro stia cominciando a dare i suoi frutti.

D: Nel panorama internazionale credi ci siano compagnie che si possano avvicinar se non paragonare all’Odin?

R: Essendo cilena, mi vengono in mente due gruppi dell’America Latina, il gruppo teatrale La Candelaria, fondato in Colombia nel 1966, e il gruppo teatrale Yuyachkani del Perù, che ha recentemente festeggiato il suo 50° anniversario. Possono avere somiglianze tra loro, ma credo che ogni gruppo costruisca il suo immaginario, la sua identità e la sua storia in base alle proprie esigenze e al contesto in cui vive.

D’altra parte, sebbene siano molti quelli che si ispirano all’Odin Teatret, forse c’è poca cultura del teatro di gruppo, perché comporta un grande sforzo ed è difficile sostenerlo finanziariamente. Per questo motivo è molto comune trovare gruppi che in realtà sono composti da uno o due persone e cambiano team di lavoro a seconda dei progetti che realizzano. Ci sono molti gruppi o compagnie che iniziano seguendo le orme dell’Odin Teatret ma alla fine trovano la loro strada.

D: Questo tipo di teatro comporta disciplina, metodo e dedizione. Come fai a conciliare la tua vita privata con quella lavorativa?

R: Ho sempre pensato di dedicarmi al 100% al mio lavoro. Non volevo essere una madre. Ad un certo punto ho cambiato idea ed ero incinta. Ho ricevuto la notizia lo stesso giorno della premiere de “l’Albero”. Pensavo: “Potrò continuare a lavorare?”. Ero piena di dubbi. Ho detto al mio compagno Luis che non potevo dedicarmi soltanto ad essere genitore, e alla piccolina che portavo in grembo: “Piccola, tua madre è un’attrice e una regista, lavora a qualcosa che ama, quindi preparati, avrai una vita divertente”.

Sono sempre stata ossessionata dal mio lavoro e ho difeso quello spazio con le unghie e con i denti. Ho lavorato fino all’ottavo mese di gravidanza. Mi sentivo forte, sana e felice. Abbiamo viaggiato in tournée in Argentina, calcolando l’ultima data in cui mi avrebbero permesso di poter viaggiare. Mi sono esibita nelle “Grandi Città sotto la luna” con una pancia enorme, tutti pensavano che avrei partorito a Buenos Aires. Ma Eloísa è nata in Danimarca, ad aprile. Poi, ho deciso di tornare in scena a luglio, tre mesi dopo il parto. Di questo, a dire il vero, me ne pento. Ma venivo dalla formazione/educazione di fare, per fare
l’impossibile.

Oggi, penso che mi sono spinta troppo in là. Posso solo provare gratitudine per le gioie ed i dolori. Non mi giudico. Fui fedele a quello che sentivo in ogni momento. Da allora fino ad oggi, con Luis abbiamo cercato di conciliare la famiglia ed il lavoro. Eloísa è sempre in teatro con l’Odin Teatret o con Ikarus Stage Arts. Viaggia sempre con noi. È estenuante, sì, ma Eloisa è una bambina molto felice. Ho lavorato molto
ogni giorno, più di quanto potessi immaginare.

Nei momenti di difficoltà, penso
spesso a Torgeir, che nonostante stesse morendo di cancro, continuava a
lavorare sempre con il sorriso e con tanta dedizione. Per me lui è
un’ispirazione. Anche se la mia famiglia è lontana e spesso sento di aver
bisogno di loro, apprezzo l’aver avuto, ugualmente qui, un’importante rete di
supporto. Stiamo crescendo nostra figlia con l’aiuto di Gabriela Arancibia e
Michelle Marie Rodriguez, e all’occorrenza ci sono anche Francesca Tesoniero e
altri Ikarus. Qualche anno fa ci hanno aiutato molto anche Paola Vilchez e
Yessica Alvarado.

Apprezzo aver avuto tutto ciò, è
stato essenziale. Una cosa che ho capito nel tempo è che per conciliare vita
privata e lavoro è importante essere coerenti con sé stessi. Il tempo non si
ferma se non impari a tacere e a fermarti. E se non impari, il tuo corpo lo fa
per te. L’onestà assume un valore profondo ed anche imparare a saper chiedere
aiuto.

L’Odin Teatret, Ikarus, Luis ed
Eloísa mi spingono sempre ad andare oltre. Unire i due ambiti, la famiglia e il
mio lavoro, mi ha fatto crescere fin dall’inizio, mi ha insegnato ad affrontare
le mie paure e spronato a fare l’impossibile. L’impossibile è un traguardo che
non sempre viene raggiunto…e questo frustra. Eloisa, mia figlia, oggi è la
mia grande maestra. È lei che mi fa scoprire ogni giorno qualcosa che non
conoscevo di me stessa. Mi ha dato saggezza, pazienza e la consapevolezza
dell’amore incondizionato.

D: Eugenio Barba durante l’incontro avvenuto subito dopo lo spettacolo
“L’albero” il 19-11-21 presso i Cantieri Teatrali Koreja a Lecce, ha espresso
la volontà di non voler tramandare L’Odin. Come parte integrante della
compagnia, quali sono le tue aspettative e cosa pensi di fare dopo questa
esperienza?

R: Uno dei motivi per cui ho
scelto di fare teatro è perché quello che amo di più è viaggiare ed imparare
dall’incontro che nasce tra culture diverse. Sono grata di lavorare su ciò che
per me ha un significato, circondata da persone che mi ispirano e mi spingono a
crescere ogni giorno. Da parte mia, cerco di adempiere al grande compito di
vivere e godermi il momento presente il più possibile.

Cerco di non avere aspettative
sul futuro o su cosa farò quando la mia esperienza come parte dell’Odin Teatret
sarà finita; perché non è ancora finita. Ovviamente è una cosa che non voglio
che accada, far parte del gruppo sta segnando la mia vita in modo molto profondo,
ma capisco che fa parte del ciclo della vita. Mi chiedo come dovrebbe terminare
una bella storia come questa.

Sicuramente Eugenio, Else Marie,
Iben, Tage, Ulrik, Frans, Jan, Roberta, Julia e Kai sapranno come farlo in modo
saggio. Alla fine, sono loro che hanno costruito questa storia. Io mi sento
solo come una mortale che termina la sua festa con gli Dei. Eugenio dice di non
avere eredi. Io sono d’accordo con lui.

Dice: “Non ho eredi né ho un’eredità da lasciare. Il mio insegnamento non si trasmette né si estingue. Evapora e cade come pioggia sulla testa di chi non se l’aspetta”. Io non me l’aspettavo eppure quella pioggia mi ha bagnato e mi sta ancora bagnando la testa. Penso che i giovani debbano costruire la nostra casa, la nostra storia. Ma per andare avanti devi guardare indietro. Per me è importante avere la sua guida e i suoi insegnamenti e consigli. Lo ringrazio anche per avermi ispirato a trovare la mia strada. Faccio tesoro e rispetto tutto ciò che ho ricevuto.

Sono passati 15 anni dal mio primo incontro con Julia ed Eugenio e quasi 7 anni da quando sono parte del gruppo. Provo solo gratitudine per tutto ciò che ho ricevuto e serenità per tutto ciò che ho dato. Dopo questa esperienza, continuerò sicuramente a lavorare, e mi prenderò cura di ciò che ho ricevuto. Ho deciso di fare teatro, perché non mi piace la realtà.

Ognuno è responsabile della realtà che crea, io lavoro per costruire la mia. Vedo il teatro come un veicolo che ci aiuta a risvegliarci, a trasformarci e ad ispirare anche altre persone a farlo. E se ognuno di noi diventa la versione migliore di sé stesso, è già qualcosa.

Continuerò a lavorare in teatro, cercando un modo più amorevole, premuroso e saggio. Sempre con disciplina, ma senza mai perdere la gioia (Ringrazio Francesca Tesoniero per avermi aiutato a tradurre in italiano i miei pensieri).

prossimi Appuntamenti

1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance