Calendario

Marzo 2022

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina Diritti negati

Diritti negati

Visioni
di Gigi Mangia

NELLO YEMEN I BAMBINI SOLDATO SONO MANDATI IN GUERRA E SONO FUORI DALA SCUOLA, NELL’AFGHANISTA LE DONNE SONO FUORI DALL’ISTRUZIONE, ALLE BAMBINI INVECE È VIETATA LA SCUOLA.

Davanti ad un diritto negato: mai chiudere gli occhi, mai perdere la voce, mai rinunciare alla denuncia.

La guerra non si limita solo alla conquista e al dominio politico dei popoli. Il suo progetto infame è quello di abolire la libertà, vietare l’istruzione, escludere le donne dalla cultura, per fare di loro solo produttrici di figli e del corpo palestra di sesso.

I Paesi fuori dall’illuminismo sono molti e sono utili al capitalismo di rapina. Le carte dei Diritti Internazionali si stanno rivelando atti formali e non hanno la forza di far valere i principi del diritto che le ispira. La Diplomazia è disarmata davanti agli interessi delle Grandi Potenze perché contano sempre la spada e i soldi. Il cuore della finanza
è il portafoglio, il diritto all’istruzione un dettaglio. Un popolo senza
istruzione è più facile da governare ed è molto più semplice da sfruttare.

Nel suo progetto di teatro, Koreja è teatro con impegno pedagogico, per scelta di lavoro e per vocazione culturale. La cura verso le scuole, la rassegna di Teatro Ragazzi, raccontano tutto l’interesse che il teatro ha verso l’educazione dei ragazzi giovani e bambini.

Non si può tacere davanti alla barbarie e al disprezzo dell’istruzione, che serve solo a gonfiare le vene del potere dispotico
dei tiranni di ogni colore.

Non possiamo tacere e quindi, accettare di mandare gli aiuti internazionali ai Paesi che negano l’istruzione alle donne, come avviene in Afghanistan e ai bambini nello Yemen, dove sono impiegati per fare la guerra.

La guerra della Russia contro l’Ucraina, nella nostra Europa, ha fatto sparire dalle pagine dei giornali e dai social, sia l’esclusione delle bambine dalla scuola imposta dai talebani, sia l’impiego dei bambini–soldato nello Yemen. L’ignoranza non è solo una barriera sociale, è una
gabbia, una vera prigione senza la luce della ragione.

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con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

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TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina La guerra è sempre una sconfitta della ragione:  “Bellum Iustum” non esiste.

La guerra è sempre una sconfitta della ragione: “Bellum Iustum” non esiste.

Visioni
di Gigi Mangia

La guerra della Russia contro l’Ucraina è diversa rispetto a quella del passato. È una guerra, infatti, che si serve della comunicazione e della propaganda, usa i social, i video, la fotografia, molto la televisione. È spettacolarizzata, vissuta come un videogioco davanti allo schermo televisivo o nello smartphone.

Io seguo la guerra ad occhi chiusi, la conosco, la sento, ma non la vedo. Sento le sirene, il rumore delle bombe e dei missili lanciati per colpire i palazzi, i condomini, gli ospedali, le scuole, i teatri, l’università e distruggere i supermercati. I carrarmati, i missili come le bombe, colpiscono anche i civili, gli sfollati in fuga dalle case in fiamme. Sento, in particolare, la voce dei disperati innocenti in fuga dalla guerra. La guerra colpisce il cuore della città, il suo obbiettivo è quello di cancellare la comunità. I bambini uccisi dalla guerra, ad oggi, sono 128; le scuole distrutte 63. Non sono numeri, ma chiodi di insopportabile dolore conficcati nel mio pensiero, avverto un’agitazione della mia coscienza disarmata ed impotente di agire. Quella del dittatore, Vladimir Putin, è una guerra cinica orientata all’odio, fondata nell’ideologia del potere assoluto in lotta contro il capitalismo della cultura occidentale, il suo progetto è un nazionalismo estremista.

Putin ritorna indietro e farnetica la storia. È stato il suo discorso avuto, prima della dichiarazione di guerra all’Ucraina. Putin, come il serbo Milošević, nella guerra in Serbia, vuole realizzare l’urbicidio delle città ritenute nemiche. Il suo progetto, infatti, è quello di distruggere tutti i luoghi della vita sociale come le piazze, i musei, i teatri, le scuole, gli asili, dove i bambini sono il futuro della città. La guerra riduce in macerie le città, Mariupol, Kharkiv e Kiev, sono città martiri, senz’acqua, pane e luce. La guerra colpisce e uccide i corpi. Le donne sono stuprate e impiccate in segno di disprezzo della vita.

Per cancellare la memoria, per impedire di vivere, per interrompere la continuità delle generazioni, per compiere l’urbicidio, la guerra uccide donne e bambini, senza colpa, ma obbligati a subire la guerra. Le città distrutte dalla guerra rimangono per lunghi anni con le ferite e per guarire ci vogliono anni e anni di grandi cure. L’urbicidio è una morte particolare della città, perché non c’è la sepoltura né delle macerie che rimangono visibili come piaghe della guerra, né dei morti che finiscono in fosse comuni. Non c’è la guerra buona o giusta, la guerra è sempre sbagliata ed è la perdita della ragione, per questo deve essere sempre disprezzata. L’Ucraina è stata aggredita da Putin per questo, almeno a me, tocca il dovere di aiutare, anche con le armi la resistenza degli ucraini in lotta contro i russi invasori per difendere la loro libertà. Nella realtà il pacifismo etico – ideale è un pensiero debole che non sempre può essere praticato, così come la storia ci ha insegnato.

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immagine di copertina Giornata mondiale <br>della poesia

Giornata mondiale
della poesia

Visioni
di Gigi Mangia

La penna dei poeti puó scrivere con parole chiare la responsabilità della guerra incivile e cinica del dittatore Vladimir Putin.
Il 21 marzo è la giornata mondiale della poesia. Il mondo stordito dal rumore delle bombe ha bisogno di sentire le parole nella voce dei poeti perchè i poeti aiutano l’uomo, non lo lasciano mai solo, lo guidano sempre. La poesia è chiamata a dire parole di chiarezza:
mai più sui bambini la morte del cielo, mai più dal cielo e dalla terra terrore e sangue. La guerra che uccide, il dittatore che bombarda le scuole, gli ospedali, i teatri e i condomini, si rende responsabile di una guerra cinica e incivile perchè scarica tutta la sua devastante violenza sul corpo. La donna infatti diventa l’obiettivo privilegiato e pregiato del soldato, si esercita così lo stupro di guerra contro le donne. La voce dei poeti si condensa in nuvole di parole in opposizione alle bombe a grappolo che distruggono e uccidono i bambini vittime invisibili della guerra. Ai poeti il compito di scrivere con la loro penna il futuro dei bambini sopravvissuti alla violenza devastatrice della guerra cinica e violenta per essere curati dalle gravi ferite della guerra. Il 21 marzo, giornata mondiale della poesia, deve essere dedicato al teatro di Mariupol’ distrutto da una pioggia di bombe. Il teatro è la casa dei poeti dove le parole possono essere la voce della resistenza al male e quindi la forza della narrazione del futuro.
Se vuoi avere un maestro e non essere mai solo trova nella tua vita un poeta.

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TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina 37 anni di Koreja <br>un’impresa artigianale

37 anni di Koreja
un’impresa artigianale

intervista tratta da PAC paneacqueculture.net

Interviste
di Ida Barbalinardo

21 febbraio 2022

| Il primo nucleo del Teatro Koreja – formato da Salvatore TramacereStefano BoveFranca Carallo e Francesco Ferramosca – si costituisce nel 1985 e abita gli spazi del Castello Tre Masserie di Aradeo, nel profondo sud. Un sud in cui il teatro è una pratica sconosciuta se non altro perchè non se ne sente il bisogno, ci pensano le varie manifestazioni della tradizione popolare a riempire il vuoto.
In questo contesto, il gruppo originario di Koreja cerca di dare vita a un teatro particolare, un teatro connotato dall’interesse per la ricerca, per la sperimentazione e proiettato verso l’incontro come motivo di arricchimento. Sulla base di questi presupposti e in seguito al trasferimento a Lecce nel 1998, all’interno di un’ex fabbrica di mattoni, totalmente ristrutturata a proprie spese e sita nel quartiere Borgo Pace, si delinea sempre più chiaramente l’identità di Koreja: una realtà che, seppur aperta alle influenze provenienti dalla relazione con l’altro, mantiene una forte impronta personale ravvisabile nella spiccata artigianalità e nella fede per la “pratica in cerca di teoria”.
In occasione del 37° anniversario della fondazione, abbiamo intervistato Salvatore Tramacere, direttore artistico di Koreja:

A quando risale il suo primo incontro con il teatro e cosa l’ha spinta a continuare su questa strada?

In tutte le circostanze della vita, secondo me, c’è qualcosa che scegli e qualcosa da cui vieni scelto. Per quel che mi riguarda, posso persino dire che il teatro mi è capitato, considerando che volevo fare tutt’altro nella vita. Però stiamo parlando dei primi anni ’80, un periodo storico in cui in Salento la parola “teatro” era una parola lontana, sconosciuta. Nonostante tale contesto ho avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie. Una di queste persone (César Brie) proprio in questi giorni è in scena presso Koreja sia con un suo lavoro (Boccascena, la cui regia Brie ha condiviso con Antonio Attisani), che con La riparazione, uno spettacolo che ha scritto e diretto per noi.
Il punto di svolta è stato probabilmente questo: la coincidenza del desiderio di andare via con l’incontro con il teatro, che in questo senso equivale alla più piena realizzazione di quella volontà di fuga ed evasione.
Da qui in poi è stato fondamentale cercare di costruire una casa fin da subito, un luogo dove potersi sentire protetti, da una parte, e dove avere la possibilità di ospitare e incontrare persone, dall’altra.
Come Koreja – che ha una storia collettiva, non abbraccia solo il mio percorso – abbiamo così incontrato figure fondamentali della storia del teatro in un territorio in cui quest’ultimo era ancora qualcosa da inventare, trascorrendo gli anni della nostra iniziazione e della nostra formazione in una masseria.

A cosa attribuisce la mancanza di teatro al sud in quegli anni nonostante esistesse un immaginario nutrito della tradizione popolare?

Credo non se ne sentisse granchè il bisogno perchè, a sud in genere ma nel Salento in particolare, quello spazio vuoto era riempito appunto dalla tradizione. Penso ad esempio alla dimensione delle feste paesane, dietro le quali vi è un grande lavoro: festa vuol dire struttura, non è mai improvvisazione. È chiaro però che in questo caso stiamo parlando di spettacolarizzazione, passare al teatro è un’altra cosa. Lo studio del folklore e dell’antropologia è stato importantissimo per me perchè, pur non avendo una formazione teatrale vera e propria, scolastica, disponevo di un mio background che mi nutriva e mi arricchiva tantissimo.
Poi ripeto, passare al teatro è un altro discorso e dipende anche dal lavoro che si vuole fare: i nostri progetti erano legati all’idea di un teatro particolare, un teatro delle relazioni, dei rapporti, della ricerca e questo ci ha portato a confrontarci con varie figure.
Questa è l’impostazione che ha fatto sì che non fossimo dei “poveracci” quando abbiamo incontrato il teatro, eravamo già in un certo senso figli di qualcuno, mi permetto di dire.

Nell’ambito del vostro gruppo originario, vi capitava di preoccuparvi di non essere accolti proprio per la vostra idea particolare di teatro e della scarsa familiarità del sud con la pratica teatrale?

Il nostro primo spettacolo – con la regia di César Brie – si chiamava  Dovevamo vincere e, nel corso della messinscena, cantavamo canzoni grike e in dialetto salentino. Ricordo che a metà degli anni ’80, a Santarcangelo di Romagna, gran parte del pubblico rimase disorientato nel vederlo; solo una persona, Thierry Salmon, comprese le origini della storia che stavamo raccontando.
Culturalmente quindi ci sentivamo fragili, un po’ minoritari ma non deboli e ancora adesso siamo così: questa fragilità in qualche modo ci appartiene.
Tale disposizione d’animo ha fatto sì che, nel corso del tempo, siamo sempre andati in cerca di altre realtà marginali, minoritarie, soprattutto per quel che riguarda il lavoro che abbiamo fatto all’estero (che credo abbia coinvolto 44 Paesi del mondo); non lo abbiamo fatto con una reale consapevolezza, abbiamo più che altro trovato nostri simili in altri posti del mondo.
Ne consegue che la nostra identità, che si costruisce giorno dopo giorno e spero non si esaurisca mai, sia fatta anche di questi piccoli dubbi, di questi momenti in cui metti in discussione quello che stai facendo per poi procedere con un approccio migliore.

E sempre nell’ottica di questa dimensione dell’incontro, quanto dello sguardo delle grandi personalità con cui vi siete relazionati è stato poi mutuato nell’esperienza di Koreja?

Io credo che la cosa più bella degli incontri non sia l’idea di portarsi via un pezzo di quella persona ma sapere che tu appartieni a quell’esperienza umana, che deve però essere contestualizzata in quel determinato periodo storico. Gli incontri non rimangono uguali a se stessi nel corso del tempo: io e César, ad esempio,  non siamo più gli stessi di tanti anni fa, siamo, spero, evoluti e ritrovarci ancora qui significa che c’è una sorta di appartenenza, di riconoscimento di un percorso. Così vale per Eugenio Barba, che è stato qui a novembre, e per le altre persone che sono state importanti per il nostro cammino, per il nostro sviluppo.
È quindi giusto che la poetica si arricchisca e cambi man mano che si va avanti: nella pittura i pittori peggiori sono stati quelli che hanno iniziato e finito nello stesso modo. Questo per dire quanto gli incontri segnino la tua vita e quanto sia importante definire i periodi, sapere che fino a un dato momento ti sei rispecchiato in qualcosa e, successivamente, ti apparterrà qualcos’altro. Ed è bello: non vuol dire perdere d’identità, ma rafforzarla.
Poi è chiaro che delle relazioni rimane spesso traccia in quello che si fa e un esempio in tal senso è il fatto che Koreja, a livello architettonico, non c’entra niente con il sud, le origini, la festa ma in qualche modo rimanda a Berlino, a Oslo.

In Koreja si percepisce una forte impronta di artigianalità legata alla ricerca e anche all’incontro con l’altro, con l’uomo. Questo aspetto si riversa poi nella vostra linea di condotta, la “pratica in cerca di teoria”, anch’essa forse collegabile alla componente dell’artigianalità.

Sì, abbiamo sempre pensato che il fare venisse prima del pensare, che non vuol dire fare quello che si vuole senza criterio ma cercare di utilizzare l’esperienza per risolvere un problema. Il teatro è fatto di problemi, non di domande. Le domande bisogna porsele prima e, una volta trovate le soluzioni, possono nascere le forme che rappresentano l’opportunità di dare concretezza a un’idea. La nostra pratica consiste nell’avere il coraggio di cambiare, a volte anche subito, senza aspettare troppo: è un atteggiamento che deriva dal nostro essere sempre stati molto concreti e pratici, cercando di dare titolo e definizione a quello che facciamo solo in secondo momento.

Come si riesce a conciliare l’artigianalità, la propensione all’incontro – le quali richiedono lentezza e approfondimento – con i ritmi che la contemporaneità impone (essere costantemente presenti, performanti, produttivi)?

Si fa che se prima si faceva dell’incontro la sola possibilità di esistere, oggi, di opportunità del genere, bisogna crearsene venti. Questo vuol dire sviluppare la capacità di realizzare più cose in più direzioni, cercando di mantenere quell’artigianalità di cui stiamo parlando: è chiaro che dedicarsi a un solo progetto richiede lentezza e ricercatezza, economicamente deficitarie. Se invece contemporaneamente t’impegni su dieci fronti, questo ti porta a una complessità e anche a una ricchezza economica che ti permette di continuare. Non è facile. Quello che voglio dire è che Koreja è un’azienda in cui un gruppo di persone che sono state formate nel tempo compiono un lavoro quotidiano in più sensi, cercando di mantenere in tutti una certa qualità. Siamo, questo è poco ma sicuro, un’impresa culturale all’interno della quale 18 persone lavorano, percepiscono stipendi, contributi etc. Questo è il minimo, per non dire poi tutto quello che c’è intorno.

Per chiudere, guardando a questi 37 anni trascorsi, cosa non vi aspettavate e vi è stato dato dall’esperienza di Koreja? Penso anche all’impatto con la pandemia.

Il nostro primo spettacolo – Dovevamo vincere – secondo me era già un programma poetico di Koreja e, nel bene e nel male, questo concetto è rimasto, non nel senso che abbiamo perso ma che, come in passato, continuiamo ad impiegare tutte le nostre forze e capacità in quello che facciamo, mantenendo la passione e la propensione alla cura.
Questa pandemia credo che più di altri ci abbia trovati attenti, pronti: non voglio nella maniera più assoluta pensare che siamo meglio o peggio di altre realtà, però questa situazione non ci ha trovato spiazzati, senza strumenti sia da un punto di vista economico sia del confronto. Abbiamo dovuto sottostare a tutta una serie di regole, ma il modo in cui affrontare questa condizione in un certo senso lo conoscevamo già. La “pratica in cerca di teoria” ci è stata molto utile in questo senso. Quello che abbiamo fatto è stato cercare di portarci sempre avanti, anche su questioni che magari non erano ancora emerse da un punto di vista ufficiale.
Lo slogan della crisi in cui possono nascere cose nuove si realizza se tu sei pronto: ecco, per me questa è una parola chiave. Alessandro Leogrande è stato per noi un maestro in questo senso, perchè era realmente portatore di questo tipo di cultura secondo cui non basta la passione, servono gli strumenti.

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* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

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immagine di copertina Il mio ricordo della voce di Carmelo Bene

Il mio ricordo della voce di Carmelo Bene

Visioni
di Gigi Mangia

Il 16 marzo ricorre il ventesimo anniversario della morte di Carmelo Bene. È difficile dire chi sia stato per noi Carmelo Bene: un grande intellettuale, un grande poeta, un maestro di teatro, una forza creativa illuminante sempre inquieta, mai ferma, sempre impegnata ad arricchire l’estetica della sua arte.

Carmelo Bene è stato un maestro difficile e scomodo perché egli stesso era impegnato nella ricerca di se stesso come forza, come verbo creativo, come voce. L’esperienza, il trasporto, la contaminazione del corpo nel ritmo della poesia sono stati, a mio avviso, gli elementi fondamentali della Divina Commedia, recitata da Bene dalla Torre degli Asinelli a Bologna.

Quel giorno davanti ad oltre diecimila persone, la sua voce è stata una magia, la pura forza della parola, capace davvero di far entrare con il corpo ciascuno dei presenti nel viaggio Infernale. Carmelo Bene con la sua voce creava, dava vita ai corpi, li coinvolgeva nell’ascolto, li spogliava dal tempo. Li portava ad essere nella musica e nella parola ed era protagonista, attore, creatore di emozione.

Ricordo ancora la sua voce con la quale dava risalto al pensiero dei grandi della letteratura, da Italo Calvino a Nietzsche: erano le sue interviste impossibili. Ha lasciato la sua voce alla radio, sempre straordinario, sempre bello da sentire.

Carmelo Bene è stato un figlio particolare del Salento. La luce, la terra, l’acqua e il vento, il sole e lo scirocco erano il suo corpo, la forza del suo essere poeta, attore, teatro ed erano anche le radici del suo essere voce degli Dei, mito di Dionisio. È stato capace di illuminare di modernità la cultura pagana e di fare esperienza di cristianità col Santo dei Voli di Copertino.

La sua identità, la sua appartenenza, il suo essere salentino sono presenti fin da giovane nei suoi versi, infatti così poetava:

“La mia vita è d’acqua.

È di musica. Acqua è musica. Musica d’acqua.

Domani il suono di quest’ora

si sfiumerà sul mare

…e sia il nostro

silenzio a colpirci in un bacio…

nel suono del mare”

Carmelo bene visse i suoi ultimi anni di vita a Otranto, dove la prima
luce del giorno incontra il mare: era questo il paesaggio nella vena creativa dell’arte di Carmelo Bene.

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C’è ancora troppa violenza
contro le donne

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di Gigi Mangia

Lettera aperta

Il mio tempo è iniziato nei tuoi occhi, la mia vita al tuo seno. Nelle tue braccia ho scoperto l’amore. Tu hai sempre scaldato il mio corpo e hai sentito il mio cuore, sei stata segreta. Tu sei stata per me come
un fiore, hai riempito i miei gironi di profumi e colori. Tu non meriti il maschilismo, è più amaro del veleno, offende la tua storia, inquina la nostra felicità. L’8 Marzo è una pagina bianca. Nel primo rigo bisogna scrivere la parola “SCUSAMI se ho mancato di seguire la strada che tu mi volevi insegnare: amare e basta”.

C’è troppa violenza contro le donne, l’8 Marzo non può essere una giornata di festa, ma di riflessione.

Vorrei dedicare l’8 Marzo a una bambina “Embla Ademi”, una piccola bambina di 11 anni della Macedonia del nord, affetta da sindrome di
Down è stata vittima di maltrattamenti e di atti di bullismo dai suoi compagni di classe.

È ancora inaccettabile minacciare e mettere in pericolo i bambini, soprattutto quando sono affetti da problemi fisici e deficienze nello
sviluppo. L’uguaglianza è un processo di educazione e comincia proprio a scuola, il traguardo però per raggiungere l’uguaglianza e la parità di genere è ancora lontano.

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immagine di copertina Per i grandi poeti il tempo <br> non finisce mai

Per i grandi poeti il tempo
non finisce mai

Visioni
di Gigi Mangia

Cent’anni fa a Casarsa, in Friuli, nasceva Pierpaolo Pasolini, un intellettuale divenuto modello della cultura italiana. Pierpaolo Pasolini secondo me non è stato un poeta profeta, al contrario è stato un genio e un talento, una forza creativa in grado di sperimentare i grandi linguaggi del novecento. Pasolini infatti fu poeta, pittore, produttore cinematografico. Nella sua vita inizialmente il poeta ebbe un grande amore per il padre dal quale peró si allontanó quando tornó dall’Africa perchè era diventato duro e violento.

Alla figura del padre, Pasolini sostituì quella della madre alla quale fu profondamente legato e da cui non si separó mai, si prese sempre una grandissima cura ed ebbe sempre un grande e profondo amore. Un articolo di Pasolini creava, sui giornali, grande discussione e onde lunghe di pensiero. Il poeta fu sempre in lotta, diverso e lontano dal costume
e dalle norme. La sua più grande sofferenza fu quella di essere accusato di violenza sessuale su minori, reato per il quale subì un processo.

Di Pierpaolo Pasolini ci rimane il mistero e l’ombra della sua incredibile morte all’idroscalo di Ostia, legata alla macchina che più volte passò sul suo corpo.

Pasolini ancora oggi è un amico, una guida, un compagno nella ricerca e nella sperimentazione, è un poeta maestro, per questo il suo tempo non finisce ma continua.

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immagine di copertina Gli invisibili innocenti della guerra in Ucraina

Gli invisibili innocenti della guerra in Ucraina

Visioni
di Gigi Mangia

Secondo la Croce Rossa, l’UNICEF e l’UNHCR, sono almeno 17 milioni i bambini vittime della guerra, sono vittime innocenti e invisibili nella narrazione del conflitto. Per loro la violenza della guerra è senza regole, priva di ogni forma di rispetto della loro vita. Nelle città di guerra l’aria è irrespirabile, il rumore delle armi causano terrore, i bambini muoiono sotto il cielo nero. Non hanno nessuna colpa e noi dovremmo avere il coraggio di chiedere scusa per averli fatti nascere in un Mondo di guerra. Sono bambini che hanno bisogno di essere curati dalle ferite di guerra, di essere aiutati a superare il trauma causato dalle armi, e di essere stati allontanati di notte dalle loro case, strappati al loro letto, svegliati in piena notte per scappare nel buio gelato per essere allontanati dai loro padri, portati al confine dove essere consegnati alle loro madri, liberando i loro papà a tornare a combattere per difendere, dai russi, la loro terra e la loro libertà.

La guerra che uccide i bambini, priva il Paese di avere la continuazione della generazione, causando la morte sociale e l’impoverimento della società. L’arte, la cultura, possono essere utili ad evitare la follia del dittatore russo. L’arte, infatti, può fermare e sconfiggere la guerra. Tocca a noi l’impegno di incontrare e scegliere le parole, per conoscerle, per comprenderle e per poi usarle, per cambiare, quindi per costruire un modello culturale fondato sulla pace e sul riconoscimento dei popoli come fratelli

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