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immagine di copertina Il corpo è l’unico teatro che mi resta

Il corpo è l’unico teatro che mi resta

Visioni
di Veronica Miceli*

Seduta sulla panchina opposta vi guardo:  cosa avete da non dire?

Il corpo è l’unico teatro che mi resta, per guardarvi, per non sgretolarmi, nonostante i continui lock down e quarantene.

Vi vedo attraverso me, senza la quarta parete. Come in teatro. Come quando mi sedevo in Platea, fila B, Posto 16 accanto alla mia amica Tina, sognatrice come me. Vi sento attraverso il corpo che non dice, distanziato e in autocombustione. Occhi al vento e bocca coperta. Qui sembra non esserci niente, invece, i loro corpi, davanti a me, parlano. Sono silenzi incarnati.

“Pensavo che questo Covid ci avesse messo a pensare, ripulire le anime per farci capire i veri principi e valori della vita. Dovevamo essere più vicini, sorridere, capire che la vita è bellissima. Dovevamo iniziare a pensare che una passeggiata poteva essere importante, vedere i fiori…esplorare le case abbandonate, come quando ero piccolino”.

“Invece, abbiamo tutti aumentato la nostra invidia del prossimo, delatori e segnalatori, ragioniamo di economia fingendo di capirne, ci lamentiamo…ma questo lo facevamo già, solo che ci lamentiamo di più…mentre i poveri restano più poveri e i ricchi ancora più ricchi…”

Mentre vi guardo parlare in silenzio, stringo il mio “Teatro in tasca”, l’ultimo della Stagione Teatrale 2019/2020.Lo porto sempre con me, come un amuleto, nel portafoglio sguarnito di denaro e pieno di tessere fedeltà.

L’assenza di quarta parete mi manca. Mi manca la sua presenza di ombra, il percepire la continuità emozionale tra me e gli attori. Mi manca il travaso di me sul palcoscenico.

Sento la mancanza quando ci sono, quando sono presente a me stessa e fuggo dalle video chiamate e chat varie che popolano la mia giornata. Il mio corpo teatro è diventato troppo pieno di personaggi e storie. Tracima. Come l’acqua in una brocca, mentre rimango a guardare assetata, mi sento disabitata, svuotata dalle miei emozioni che hanno bisogno di ricevere un nome. Il teatro dava loro un nome. Aveva la magia di svuotarmi e riempirmi di nuovo, in una fluidità catartica.

Aveva la capacità di rendere materiale la mia fantasia e darmi gli strumenti per comprendere il nuovo volto di chi incontravo, gli avvenimenti della vita e i miei sogni.

Sento ancora di più la mancanza nell’incomunicabilità delle mascherine, che lasciano in vista solo occhi impauriti come foglie marroni al vento gelido del nord. Le pupille agitate dal mare in burrasca e la barca sociale alla deriva.

Ma l’agitazione di quel mare negli occhi, chi la vede? Se non ci sono
contenitori simbolici, come il teatro, per trattenere la sua effervescenza. La schiuma frizzante si disperde, mentre il teatro rende vivo nel tempo anche ciò che non vediamo immediatamente, ma abbiamo visto e ci portiamo dentro come archetipo.

Non pensate che il teatro è il luogo dell’archetipo? Sì, il luogo in
cui il lupo, il falco, l’aquila, l’istrice, il serpente, la libellula, l’elefante, la balena, la volpe, il fuoco, l’acqua, tutta la materia visibile e il suo collante, concentrano la loro forza nell’uomo. Intendo le forze terrestri e universali della vita, del non detto e del tutto esplicito, dell’umanità che ci abita a partire dai sentimenti di odio fino all’amore più sublime.

Sento l’assenza del teatro quando vedendo i miei più cari amici comincio a sentirli estranei mentre, al contrario di prima, si sta erigendo nella realtà, quella quarta parete tra attore e spettatore, che non volevamo di certo.

Adesso vivo questo nel mio corpo, deprivata dello spazio esterno da
abitare socialmente e in cui travasare le emozioni e le narrazioni generatrici di cultura.

Che siamo senza cultura, senza effervescenza e prossimità emotiva?
Senza contatto, la vostra bocca mi è estranea, insieme ai vostri pensieri. Vi percepisco come distanze, seppure siete due metri da me, seduti su quella panchina, annoiati dalla vita.

Seppur lo stato politico e di “igiene publica” di sicurezza adesso ce
ne vuole privare, io abito il teatro nel mio corpo, in strada, in casa, a
lavoro, a scuola, nella bottega vicina. Io abito l’assenza di quarta parete in teatro e in strada, nel teatro della vita. Qui sembra che la quarta parete si stia formando. La vediamo tutti la divisione: tutti lì nell’ombra un po’ smarriti, con la sensazione di essere prigionieri in una gabbia aperta.

Questo è il teatro ora, la strada, la vita reale: voi che non comunicate seppur seduti vicini, in una panchina.

In foto: Setting,
Opera di Steinumm Thòrarnsdòttir in Westlake Park, Seattle.

*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori

Guarda il video https://vimeo.com/521344407

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