Il mio posto a teatro
Visioni
di Gianni Pignataro*
Il mio posto a teatro è il C16, fila C poltrona numero 16 della platea di Koreja. O meglio, lo era prima della pandemia. Mi ci sarei potuto andare a sedere sopra anche al buio, lo avrei trovato comunque ad
occhi chiusi prima della pandemia. Poi la pandemia ha cambiato le cose, ha fatto da spartiacque. C’è un prima e ci sarà un dopo, come per l’anno del Signore.
Di più, la pandemia ha avuto un impatto sull’umanità superiore alla venuta del Cristo, almeno nel breve periodo. Dopo trentatré anni di vita di Gesù erano in pochi a conoscerne l’esistenza, a poterne apprezzare la grandezza e la portata rivoluzionaria del pensiero e del vissuto. Certamente i suoi discepoli si prodigavano nel diffondere il Verbo, ma sarebbero stati necessari molti e molti anni perché le sue parabole, la sua predicazione, il suo esempio raggiungessero un numero rilevante di abitanti del pianeta.
Quanto alla pandemia invece sono passati appena una cinquantina di giorni da quando si sono diffuse le prime notizie relative al virus fino al momento, in cui tutti abbiamo imparato nostro malgrado a conoscere il significato della parola lockdown. E una nazione dopo l’altra miliardi di persone (praticamente il mondo intero con poche, fortunate eccezioni)si sono visti improvvisamente, inaspettatamente costretti a vivere una vita nuova, tutta diversa rispetto a prima.
Un’esistenza privata della sua consueta pienezza, per certi versi anche eccessiva. Questo non si può più fare, quest’altro è proibito, questo comportamento è assolutamente vietato, questo invece è da
evitare. Le nostre vite si sono di colpo come svuotate. A dirla tutta anche di tanta roba inutile, sia pure vendutaci dal sistema in confezione regalo. Insieme a tanti orpelli siamo stati tuttavia obbligati a rinunciare anche a quanto rappresenta ciò, per cui vale la pena vivere. Le nostre attuali esistenze sono innegabilmente impoverite, assottigliate, rarefatte. Sono come asfittiche, sospese.
Il mio posto a teatro Koreja non esiste più. La platea è stata modificata, in ottemperanza a uno dei vari Dpcm. Con uno zelo forse anche maggiore di quello richiesto, tanta la voglia di non mettere a rischio la salute del pubblico e di scongiurare la chiusura del teatro, salvaguardando il proprio lavoro. Con senso della responsabilità e scrupolo la capienza del teatro è stata ridotta per ottenere il necessario distanziamento fisico e pur di proporre lo spettacolo in assoluta sicurezza un certo numero di posti è stato cancellato. Tra questi il mio caro C16, dopo tanti anni di fedeltà reciproca. Dire che ci ero affezionato non rende a pieno l’idea. Neanche dire che ci ero molto affezionato. E’ che quello era proprio il mio posto, il mio punto di vista sul teatro.
Ma tant’è, “così vanno le cose, così devono andare” canta il poeta. Me ne sarei fatta una ragione, avrei scelto un altro posto pur di continuare a vedere il teatro. O meglio a fare il teatro, sia pure da semplice spettatore. Perché non è un segreto che il pubblico guardi l’attore che a sua volta lo guarda, ascolti chi sta sul palco, il quale reciprocamente lo ascolta. Magicamente si crea un fluido, si genera uno scambio di energia. Il teatro accade soltanto se a qualcuno sul palcoscenico corrisponde qualcuno in platea, altrimenti non accade.
Dunque non può esistere quella sorta di Netflix del teatro (come si chiama, Chili?), una vera e propria bestemmia pronunciata improvvidamente da chi evidentemente non conosce neanche per sentito dire la sacralità del rito teatrale. Perché chi vi ha assistito anche una volta soltanto sa bene che quello visto in tv non è teatro. Sa perfettamente che certe emozioni, certi incanti prendono forma solo in presenza, quando può realizzarsi l’alchimia tra attori e spetta(t)tori.
Per favore, rivoglio il mio C16 a Koreja, il mio posto a teatro. La mia fame spirituale non è diversa da quella del praticante, che la domenica ha ripreso tranquillamente da mesi a frequentare il suo luogo di culto preferito. La mia voglia di bellezza non è inferiore a quella di chi visita i musei, oramai riaperti da tempo, almeno in zona gialla. La mia esigenza di ricrearmi (si, anche questo significa andare a teatro) non ha meno importanza rispetto al discotecaro, che ha ballato tutta l’estate al ritmo di UNZ UNZ UNZ a 120 bpm. Se ci sono obblighi di carattere sanitario, necessità di evitare gli assembramenti, ci siano per tutti. Se ci sono possibilità di rinfrancare lo spirito, parimenti ci siano per tutti. Senza deroghe. Non è tollerabile che attività di comunità, assolutamente assimilabili sul piano del rischio epidemiologico, vengano regolamentate in maniera diversa. Sarebbe come accettare la distinzione tra cittadini di serie A e di serie B. E questo è evidentemente irricevibile.
Del resto la cultura e l’arte, nell’immaginario collettivo di questo nostro strambo paese, non vengono affatto incluse tra i bisogni primari. E’ opinione comune che si tratti di una sorta di hobby, che banalmente non ci si mangi, come ebbe a dire un ministro dell’economia fortunatamente appartenente al passato. La sensazione sgradevole è che si tratti di un miserevole calcolo della serva, che si misurino le ragioni e gli argomenti degli uni e degli altri in funzione del numero di voti potenziali, vale a dire in base al consenso elettorale. Che tristezza, se i teatri restano chiusi esclusivamente perché i teatranti non riescono a fare lobby come i gestori delle sale da ballo e i ristoratori oppure perché i fruitori del teatro sono numericamente meno dei fedeli di Santa Romana Chiesa.
Scriveva Julian Beck (senza maiuscole e senza punteggiatura) che “la gente va a teatro per la lampada di omar dove altro la troverebbe la gente va a teatro per vedere il drago sconfitto la gente va a teatro per mescolarsi al vento la gente va a teatro per le chiavi della salvezza la gente va a teatro per imparare a respirare la gente va a teatro per la liberazione sessuale per la liberazione spirituale per il messaggio la gente va a teatro non per cattive intenzioni”
Siate ragionevoli o almeno siate gentili, ridatemi il mio caro vecchio C16 a Koreja.
In foto: Vita nel 2022 – Illustrazione di Walter
Molino (1962)
*ASSENTI, PRESENTI – Progetto di scrittura e drammaturgia partecipata con gli spettatori Guarda il video https://vimeo.com/521344407