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Tourneè

immagine di copertina Diventa odio l’amore, quando a nutrirlo è il suo peccato.

Diventa odio l’amore, quando a nutrirlo è il suo peccato.

Critica
di Annarita Risola

In questa calda sera d’estate del 9 Luglio 2021, l’ortale del Teatro Koreja, ospita “Casalabate1492”. In scena Carlo Durante e Fernando Blasi, noto ai più come Nandu Popu, il cantante dei Sud Sound System; la regia è di Salvatore Tramacere. Gli attori camminano lentamente sul proscenio, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra, accompagnati dal canto liturgico dell’Ave Maria e dal suono di un organo, fino a giungere alla ribalta.  E mentre le preghiere in latino fanno da bordone, iniziano i loro racconti di bambini. Quello seduto sul cavalluccio rosso legge storie tratte da “La crociata dei bambini” di Marcel Schwob, parla di “fanciulli selvatici e ignoranti”, mentre l’altro ha in mano una canna da pesca e i fanciulli di cui parla, sono figli di un abate e una badessa. La loro era una storia d’amore è come tante altre, ma a differenza delle altre, è proibita. La casa dell’abate, Casalabate appunto, è il luogo dei loro incontri segreti, ma anche di paludi e di malaria.

Negli anni’70 si bonificò la zona, dando il via a quello scriteriato e spasmodico abusivismo edilizio che avrebbe invaso la costa. Popu indossa gli occhiali da bravo narratore e di tanto in tanto col dito segue le parole, come se la chironomia potesse sottolinearle. “Nutrito dai pensieri…” In quel viaggio a ritroso nel tempo, riaffiorano i ricordi e rivede quei quattro “menati” del paese, quelle persone scartate, emarginate dalla società, che improvvisamente diventano a tutti gli effetti malavitosi, “malandrini”. Ed ecco ritornare in quei luoghi, in quel bar dove la bella del paese, detta Naomi Campbell, era sempre scortata dai suoi body guard, alla rotonda vicino il mare, dove suonavano la canzone di Fred Bongusto. Bella Casalabate, bella quasi come Venezia, pensava Nandu, bella anche quando ci si riuniva per preparare le conserve di salsa, perché era un modo per stare insieme e fare festa. Le case erano così vicine al mare che diventavano verdi per l’umidità tanto che alla fine, molti villeggianti, decidevano di tinteggiarle dello stesso colore verde, per risparmiare un pò di pittura e di fatica, come il suo amico Angelo detto il “Bue”, che ogni anno incontrava puntualmente, con secchio e pennello. “Ma noi eravamo fortunati”, dice Nandu, “perché potevamo giocare, loro no, dovevano lavorare e ci invidiavano”. Intanto il nodo della corda che tiene stretta la plastica al centro del proscenio, viene piano piano sciolto, rivelando un grosso ippopotamo azzurro (notevole il lavoro eseguito in cartapesta dal maestro Deni Bianco). Ecco… da qui il soprannome di Nandu…Popu, ippopotamo, appunto. Continuano le letture che esaltano la purezza dei bambini. Ma di quella bellezza la badessa e l’abate ne sfruttavano ogni risorsa. Quei figli, nati nel peccato, dovevano pur mangiare. Per farlo dovevano lavorare e come tradizione biblica vuole, coltivavano la vigna e ne vendevano i suoi frutti, in cambio di olio, agli abitanti della non troppo distante Otranto. Nessuno credeva che quelle 18 creature, si dice tutti maschi, fossero i loro figli. Preferivano pensarli figli delle streghe, le cosiddette “striare”. Ma un giorno scapparono e andarono nella vicina Trepuzzi, accolti dai pastori e non fecero mai più ritorno, perché l’odio si nutre del peccato. Gira la giostra e Patty Pravo canta “ragazzo triste”. Sognano ancora i bambini di diventare grandi, Popu avrebbe voluto fare il ciclista-pescatore e osservare il mondo da quello scoglio, ma in compagnia, perché non bisognerebbe mai stare da soli. Poi la giostra si ferma, “stanno arrivando i contrabbandieri” e inizia a raccogliere la lenza. Ecco giunto uno Yacht, pieno di stecche di Philiph Morris, si attende la notte per scaricarle e tutti aiutano a farlo, soprattutto i bambini che con le loro manine riescono ad infilarle dappertutto nella macchina. In cambio, anche loro riceveranno qualche stecca, da regalare agli adulti come un trofeo. Una stecca anche a Sartana, il cantante che Popu da bambino guardava con ammirazione mentre cantava “Marina”. Dormiva in macchina, quella notte, era ubriaco, la moglie lo aveva lasciato. Morì bruciato in quella macchina, divenuta ormai la sua casa. Con questo triste ricordo, si chiude lo spettacolo, una testimonianza di un’epoca non troppo lontana, di una mentalità del sopruso non ancora del tutto sradicata. Un bene continuare a parlarne, far emergere il brutto e trasformarlo in bello e, molto semplicemente, aiutare le nuove generazioni a non commettere gli stessi errori. Popu utilizza la favola e un linguaggio semplice e chiaro, ben consapevole che le parole, anche se non recitate come un attore consumato, riescono a fare breccia, si sedimentano e, seppur lentamente, trasformano le menti. Anche questo è il nobile scopo del teatro, educare attraverso il racconto.

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