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January 2020

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina Mbira, un fiume in piena che rompe gli argini

Mbira, un fiume in piena che rompe gli argini

Critica
di Annarita Risola*

In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri.
( Nelson Mandela, Novembre 2008)

È il 21 Dicembre 2019 e i Cantieri Teatrali koreja, in pieno clima natalizio ci offrono- Mbira- concerto di musica, danza e parola.

Buio in sala…il silenzio è rotto dal rumore di passi. In fondo al palcoscenico la luce rivela un volto, uno strano strumento e infine illumina il soffitto, che si trasforma in cielo.
Incomincia così un racconto, fatto di suoni strani e magici, accattivanti e di non facile comprensione.
Sulla scena appare una donna, è vestita di rosso, il suo dorso è flesso in avanti e i capelli neri sfiorano il pavimento. Le snelle braccia sono aperte come le ali del marabù e, grazie ad un gioco di luci, la sua ombra plana elegante e leggera sulle pareti. Le mani seguono la musica, sono movimenti ripetitivi e ritmati.
Lentamente la danzatrice – Giselda Ranieri danzatrice di formazione classica, specializzata in Danza al Dams di Bologna – sposta il corpo di lato e porta le braccia in alto mentre le sue mani vibrano. La donna è a piedi nudi. Ora muove solo le braccia, avanti e indietro, ruota su se stessa, sulle punte, con il palmo delle mani sempre ben visibile e a braccia aperte inizia a ruotare per poi, alternando i piedi e le braccia, piegare gli avambracci su di sé. Il ritmo inizia a spezzarsi sovrapponendosi per breve tempo ad un altro.
Destra, sinistra, si alternano le braccia e ondeggia il corpo per poi fermarsi.
Buio…
Si sente il suono di un tamburo che scopriremo poi essere un tamanì, il cosiddetto tamburo parlante. Lentamente si illumina il volto del musicista – Zam Moustapha Dembélé il Griot del Mali, il cui significato in Africa è “artigiano della parola” e “portatore di pace” – è in alto, al centro del palco.
Presente in scena Roberto Castello, coreografo, regista dello spettacolo e voce narrante. Da gentile padrone di casa saluta e poi ci parla del Biafra in Nigeria e nella storia di Mbira, che è anche una composizione musicale del 1981 al centro di una diatriba tra Africa ed Europa.
Poco più a destra due donne iniziano a ballare un movimento ritmico con la testa. Alla danzatrice Giselda si è aggiunta Susannah Iheme, danzatrice e performer. Indossa una maglietta nera corta e una gonna bianca.
Iniziano a fare delle variazioni al movimento della testa, alternate a salti e spingendo le mani dietro si elevano. Elementi ritmici caratterizzano i movimenti dei piedi e delle braccia, marciano, saltano e guardano il cielo.
“ La diaspora africana ha modificato il gusto del pianeta” – dice la voce narrante.
Ora il protagonista è il balafon, il suo suggestivo suono suggerisce alla donna con l’abito rosso una danza basata sulla sinuosa mobilizzazione dell’area lombare.

Ma cosa rappresentano questi micro-gesti ritmati, un linguaggio? e le ombre proiettate sulle pareti cosa vogliono comunicare?

Il musicista spiega gli strumenti e la loro epoca, Kora, Balafon…
Nelson Mandela diceva:” Noi siamo ciò che siamo per quello che tutti siamo”
E così la voce diventa coro e si sprigiona nell’aria come un profumo che genera allegria.
Il pubblico viene invitato ad alzarsi e a seguire il ritmo da loro proposto. È coinvolgente, viene voglia non solo di ballare, ma anche di cantare. Sul balafon il musicista esegue dei virtuosismi e con i martelletti batte veloce sulla tastiera.
Seguono le percussioni di Marco Zanotti – insegnante percussionista e fine ricercatore del suono.
E poi…” A djara…djara djara”( che significa “ è buono”), tutti cantano felicemente.

MBIRA è un viaggio alla scoperta dell’origine della musica e del ritmo africano. Uno spettacolo nello spettacolo, partecipato, dove lo spettatore come in un inatteso ma gratificante atto liberatorio è coinvolto in quello che può essere definito un lavoro sulle emozioni.
Abbiamo dunque assistito ad un rito collettivo, difficile parlare del suo significato più profondo ma quello più immediato è: la gioia di un incontro. I protagonisti infatti si mischiano al pubblico che diviene protagonista.
“Nessun intento mimetico, tutto è creato ex novo, passo passo. Molto poco è lasciato all’interpretazione” così dice Castello. “Le cornici rimangono rigide, sono passi di danza contemporanea e d’avanguardia”.
MBIRA è un momento di condivisione e di politica, perché quest’ultima la di può fare anche divertendosi e comunicando temi importanti con leggerezza. Mbira lascia la traccia della storia e la voglia di conoscere e di approfondire. Lo fa con entusiasmo e accattivante allegria, senza la pretesa di trovare soluzione. E va oltre lo spettacolo, perché è un progetto che si collega ad altri, comunicando valori di condivisione, fratellanza e di pace.
Non è forse questo lo scopo del teatro e dell’antropologia teatrale?
Duvignaud afferma che la società ricorre al teatro ogni volta che vuole affermare la sua esistenza o compiere un atto decisivo che la mette in causa, per Turner invece il “ dramma sociale” serve a far emergere, a elaborare ritualmente ed eventualmente risolvere i conflitti latenti nella struttura sociale.
Dialogare per ricostruire la micro società e il legame dell’individuo con il gruppo. Ecco, forse, cosa si è tentato di fare e lo si è fatto senza troppi orpelli, perché è l’uomo stesso a riempire la scena con la sua forma e contenuto.
Per la prima volta non ci si pone la domanda di come questo spettacolo possa risultare e di quanto consenso riscuoterà da pubblico e critica, ma lo si “vive” nel piacere della condivisione, sostenuta e allietata da un sapere storico, antropologico, sociologico e musicale. La danza, apparentemente subordinata alla musica, è in realtà protagonista già sul piano visivo. Le danzatrici sono un fiume in piena che rompe gli argini, sono lava bollente che lambisce il pubblico e sono parole non dette che piano piano acquistano un senso: quello della condivisione, dell’allegria, dell’unione tra popoli, della matassa raccolta che alla fine si srotola, intrappolando e trascinando con sé, nel suo lungo filo di vitalità, tutti gli spettatori diventati, involontariamente, piccoli tasselli di un unico progetto, primordiale e condiviso.

*Progetto GIOVANI SGUARDI
Anna Risola è studentessa Corso di Laurea DAMS e Socia fondatrice Palchetti Laterali Università del Salento

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Il coraggio di conoscere e il dovere di ricordare.

Visioni
di Gigi Mangia

Il
Teatro Koreja ha sempre avuto interessi verso la storia. Il suo credo
pedagogico è stato quello dello studio, della ricerca e della riflessione. Il
metodo è stato costruito con attività di laboratorio, coinvolgendo gli
studenti, le famiglie, il quartiere in esperienze performative e rappresentando
i capitoli più impegnativi della storia del nazifascismo del secolo breve. Il
teatro che si impegna a vedere la storia, deve educare al coraggio di conoscere
e al dovere di non dimenticare: l’uomo è il tempo pieno della sua storia. Io
rispetto, studio e ricordo. Io non odio.

La
Repubblica sociale italiana di Salò, voluta da Hitler, fu utilizzata per la
persecuzione degli ebrei. L’ordinanza n. 5 del Ministero degli Interni, firmata
dal Ministro Buffarini Guidi, il 30/11/1943, stabiliva di internare tutti gli
ebrei, sanciva la loro totale eliminazione. Gli ebrei, infatti, dovevano essere
portati nei campi di internamento e dovevano subire la confisca dei loro beni
che sarebbero stati acquisiti dalla RSI. Per facilitare la cattura degli ebrei
fu introdotta una taglia: 5 mila lire per gli uomini, 3-4 mila lire per donne;
mille o 2 mila lire per i bambini. Fu questa una misura vergognosa, che molti
italiani usarono per intascare denaro. Fu una delle pagine sociali più
vergognose della storia d’Italia, per gli italiani che non ebbero il coraggio
di sottrarsi ai nazisti. Nel nostro Paese non fu però tutto negativo perché ci
fu anche chi si impegnò, rischiando la propria vita, a salvare gli ebrei dai
nazisti. Una forma di solidarietà, molto bella significativa e creativa fu
quella dell’Ospedale San Raffaele di Milano. I medici dell’ospedale per salvare
dalla morte gli ebrei, li ricoveravano scrivendo nella cartella clinica di
essere affetti dalla malattia K: una falsa malattia che portava l’iniziale del
nazista Kappler. Anche la Chiesa dei preti si impegnò per salvare gli ebrei,
mentre la Chiesa ufficiale si comportò diversamente: il Papa e il Vaticano non
fecero niente per gli ebrei contro i nazisti, perché avevano paura di subire
l’invasione e le ispezioni delle SS nello Stato Vaticano. Le SS facevano paura,
avevano potere assoluto e per questo la gente preferiva non vedere o essere indifferente.  Il Papa si comportò secondo un preciso
calcolo politico e cioè quello di non essere coinvolto dal nazifascismo
affinché la Chiesa non subisse nessuna ingerenza, né nella dottrina né nella
sua organizzazione. La storia non si può dimenticare, l’oblio perciò è fatto di
pagine inutili, bianche senza righe e senza parole. L’uomo deve ricordare se
vuole evitare il male, soprattutto deve imparare a non odiare il diverso. 

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LE PECORE DELLA LUNA

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Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Liliana Segre: la tua scorta siamo tutti noi

Visioni
di Gigi Mangia

Rifiutare ogni forma e manifestazione di discriminazione razziale, affrancare il dibattito pubblico dall’odio verso l’altro, il “diverso”, combattere le risorgenti tendenze neo-naziste in tutto l’occidente sono le sfide che ci devono vedere tutti impegnati: nessuno escluso. Lo scandalo di un Paese liberatosi con la Resistenza e a prezzo di milioni di morti dal fascismo che oggi si trova a dover proteggere una donna di 89 anni, testimone vivente delle pagine più oscure della nostra storia, è il segno di un popolo che oltre a non aver fatto interamente i conti col passato sembra aver rimosso ogni argine sociale e culturale al risorgente delirio nichilista dell’ideologia fascista. L’episodio deprecabile dell’astensione nel Senato della Repubblica di tutti i rappresentanti del centro-destra sul voto per l’Istituzione della commissione Segre, così come l’attacco incendiario subito dalla libreria “LA Pecora Elettrica”, autentico presidio di democratico e antifascista in un quartiere periferico, sono le prove più evidenti e preoccupanti di questa deriva. E di fronte a questa situazione tutti i cittadini che si riconoscono nei valori fondanti della Costituzione della Repubblica Italiana hanno l’obbligo di non restare in silenzio e nell’indifferenza. Tutti insieme abbiamo l’obbligo di riaffermare un primato sociale e culturale dei valori della libertà, della democrazia e della solidarietà e nel nostro quotidiano dobbiamo come Liliana Segre combattere con le parole che riaffermino il valore imprescindibile del rispetto verso ‘l’altro’. Liliana Segre deve nella presidenza della commissione e nella sua battaglia sentire il nostro sostegno per non sentirsi sola nei palazzi delle istituzioni e isolata nel Paese. E così grazie alla sua guida e al suo coraggio saremo in grado di affrontare il risorgente clima d’odio e spazzare con una ventata di aria fresca di ogni forma di violenza. 

Siamo tutti Liliana Segre. 

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

L’esterno e l’interno dell’io nel mondo parallelo di Danio Manfredini

Critica
di Annarita Risola

Come acrobati, sempre in bilico tra l’esterno e l’interno dell’io, si giunge, a volte, in quel mondo parallelo fatto di percezioni alterate, di sovrapposizioni d’immagini e di ricordi forse mai vissuti. 

Ma qual è il confine oltre il quale il normale viaggio nell’immaginario si trasforma in patologica follia?

Ed è forse l’atavica paura della solitudine che porta l’uomo ad alterare la propria mente e a creare fantasiosi compagni di viaggio?

Danio Manfredini è l’attore e autore di Al presente, ma anche regista e “cantante”.

Il suo percorso di formazione inizia negli anni ‘70 presso il Laboratorio del Centro sociale Isola, dove studia con Cesar Brie, Iben Rasmussen, Dominique De Fazio e Tadashi Endo e poi continua nei Centri autogestiti di Milano e nelle strutture psichiatriche.

Il suo obiettivo, come egli ama sottolineare, è quello di evidenziare l’eterno conflitto tra l’incontro e la solitudine. 

Al presente fa il suo debutto 21 anni fa e permette a Danio Manfredini, l’anno dopo, di vincere il premio UBU come migliore attore. Siamo nel 1999.

La sala dei Cantieri Teateali Koreja, il 14 Dicembre 2019 è gremita.

La scena appare completamente bianca: le pareti, il pavimento, come pure i pochi arredi composti da una sedia posta sulla destra, un comodino da ospedale sulla sinistra e una panchina al centro.

Sulla parete frontale, uno dopo l’altro, sono proiettati quadri acquarellati (disegnati dallo stesso Manfredini ) che, in contrasto con il bianco della scena, sembrano rappresentare un’altra parte del mondo, quella colorata. Sono immagini di quotidianità, di passeggiate in bicicletta, di uomini sulle panchine usate come letti di notte nell’indifferenza dei passanti.

Anche Danio Manfredini è vestito elegantemente di bianco, così come l’uomo seduto che porta in scena, simile a lui nelle fattezze, una sorta di “pensatore” di Rodin, anch’egli scalzo e così inespressivo da far comprendere ben presto che si tratti di un manichino.

Due uomini agli opposti: l’uno statico, l’altro come ingoiato da un ciclone, che ruota intorno a sé, incorporando via via le storie, probabilmente vissute all’interno di un luogo psichiatrico.

Questa dualità racconta, forse, parte di un mondo che ci vuole semplici automi, privi di parola e dall’altra uomini fragili che assorbono e subiscono i pensieri altrui. Manfredini sulla scena è un uomo in continuo tormento. I suoi movimenti sono ripetuti, ritmici e nevrotici a rappresentare un mondo interiore fatto di mille emozioni che erutta come un vulcano. Un mondo, che per la sua intemperanza rievoca quello dei folli, non sempre rinchiusi in asettici ospedali; delle persone sole, che dialogano con se stesse e che si fanno compagnia ricordando i tempi passati e i frammenti di vita già vissuti.

Ma cosa rappresenta tutto quel bianco ?

Un luogo sterile o solo un luogo intimo violato, reso forzatamente pubblico e messo sotto un enorme riflettore? 

Come fermare quei ricordi, se non ripetendoli nella speranza di non dimenticarli?

L’unico modo per esprimere la sofferenza interiore è gridarla. E ciò che fa ordine in questo marasma di emozioni è l’armonia dell’inquieta, equivoca, ambigua staticità, di colui che pare guardare, riflettere e anche ascoltare le canzoni che, una dopo l’altra, fanno da colonna sonora.

Ma il suo canto è triste, come il suo volto, tinto di bianco che evidenzia i suoi occhi contornati di rosso.

Le mani dietro la schiena, le cui dita danzano come un pianista sulla tastiera, ma ciò che toccano sono vecchie note dolenti, la spazzatura che brucia vicino la casa dove abita col nonno e la mamma, mentre il padre prepara il sapone per il bucato. E tra un grido e un gemito, pone una domanda: “hai mai desiderato un’altra vita? […] Io l’ho desiderata”, risponde. Poi inizia vistosamente a tremare e a girare la sedia e vorrebbe che gli spettatori lo accogliessero con odio, in attesa della sua esecuzione. Evidente la sua allusione al lavoro teatrale dello scrittore tedesco Georg Büchner intitolata  “Woyzeck”, dal nome del protagonista, il barbiere omicida, impiccato nella piazza del mercato di Lipsia nell’Agosto del 1824. Egli la utilizza – come lo stesso autore dirà in un’intervista rilasciata a Gianni Manzella nel’98 – con la funzione di rendere il senso di ribellione.

La luce irrompe sulla scena, ed egli dice che vorrebbe riuscire a prendere il cuore per accarezzarlo, poi si copre con il lenzuolo, mentre si ode ”ti amo tanto, ti amo tanto”. Ora il protagonista occupa il centro della scena. C’è un gioco di  ombre sullo sfondo; come trino appare alle pareti e dopo aver platealmente indossato gli occhiali neri, dice che Dio non esiste, poi li ripone in tasca e augura “Buon Natale”. E continua: “Non si è mai completamente infelici”. Poi, seduto,  simula l’assenza di una gamba. Sulla canzone “Sally” di Vasco si accende una sigaretta e tossisce, la sua voce è commovente e le parole del testo “Perché la vita è un brivido che vola via…” sono un’ altalena sulla quale lasciarsi cullare. Poi è una donna che dal cassetto prende un librino, si fa il segno della croce e chiede di essere perdonata. Sono tutti frammenti di vite vissute, voci fuori campo. “  Ma le parole sono destinate a perdersi … e si può andare all’inferno anche senza scarpe “. Ma perché è senza scarpe? Forse per far comprendere che ora lui sia qui, nel presente, a mostrarsi nella sua fragilità. La luce inizia  a riempire gli spazi occupati prima da sentimenti nostalgici e negativi . Un’ultima immagine proiettata e un romantico sguardo all’infinito. Poi, lentamente, l’attore ruota capo. Il suo sguardo è celato dai grandi occhiali neri, ma altrettanto grande è il sorriso che offre, mentre con maestria attoriale s’inchina, per poi svanire nella luce.

Corso di Laurea DAMS // Progetto Palchetti Laterali Università del Salento

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immagine di copertina Chi sono le ombre folli di Enzo Vetrano e Stefano Randisi?

Chi sono le ombre folli di Enzo Vetrano e Stefano Randisi?

Critica
di Annarita Risola

“A che serve il teatro? È una forma d’arte che implica immediatamente l’uomo, che obbliga a vivere, a incontrarsi e scontrarsi”. (Franco Scaldati) 

Ombre folli – Cantieri Teatrali koreja, 23 Novembre 2019. L’opera teatrale è di Franco Scaldati, considerato uno dei più importanti drammaturghi del novecento. Nelle sue opere racconta la sofferenza, la marginalità e il degrado. Quell’invisibile che si fa ombra, ma che resiste ed esiste. Sono le aree abbandonate di Albergheria ad ispirarlo, quelle, dove teneva i suoi laboratori, coinvolgendo gli abitanti del luogo. Ombre folli, proposta per la prima volta nel 1997 dallo stesso autore( Balarm.it), ritrova ancora oggi intatta, la forza lirica dei suoi versi e della lingua dialettale, che ne sottolinea l’asprezza. Nel testo inedito, rivisto da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, ritroviamo tre piccoli pezzi “Creatore d’ombre”, “ Creature e travestimenti “ e “ Sabella “(klpteatro.it). Veterano e Randisi, attori e registi , lavorano insieme dal 1976 e nel 1995 fondano l’ Associazione Culturale “ Diabogues “. 
Tic, tic tic, danzano le dita su una vecchia Olivetti posta su un tavolino di legno. Lo scrittore, ad alta voce, rievoca immagini oniriche. Muri che si aprono e allungano, deformandosi come in un regno di fantasia e di eternità. Al centro della scena un corridoio di lumini accesi, equidistanti, cinque per lato. Sulla sinistra un grande telo bianco, che di lì a poco verrà scoperto, svelando una sedia e una poltrona un po’ retrò. Al centro del corridoio è stato riposto un mazzo di fiori rossi. I personaggi prendono corpo, ora sono genitori, ora vicini di casa e infine è la storia stessa a parlare. L’uomo seduto sulla vecchia poltrona ha una doppia vita. Di giorno serio e inappuntabile meccanico, di notte uomo dalle fattezze femminee, rese ancor più estreme da un vistoso caschetto scarlatto. Egli si racconta, come in una seduta dallo psicanalista, che l’ambivalente indumento, appeso nello studio dello scrittore, sottende. Egli ama ciò che fa, e con lucida e crudele consapevolezza, racconta il piacere che prova nell’essere riconosciuto, giustificando così la necessità di uccidere, con maniacale precisione e ritualità, i suoi malcapitati clienti. Al suo fianco ora c’è il suo amico ed ex compagno di classe, che dice di amarlo, come si ama un figlio, e di volerlo redimere. Per fare ciò lo segrega in casa. 
In questo clima quasi surreale, ciò che disorienta è la poesia. Le parole rimbalzano da una bocca all’altra, come un continuo rincorrersi e imitarsi, perché le stesse parole dette da altri, acquistano significati diversi. Le parole sono così ricche di dettagli, che le immagini si disegnano velocemente nella mente e dopo i primi scarabocchi, appaiono nitide, come tele appena dipinte. Perché Ombre folli“ è quell’altro noi, quel lato profondo e oscuro, capace di ingoiarci nel male e tuttavia, farci risalire velocemente, non lasciando quasi più traccia di esso, pur esplorando sentimenti primitivi e inaspettate perversioni. Il linguaggio porta lo spettatore a soffermarsi più sulla melodia del suono emesso, che sul significato in esso contenuto. E così il racconto, a tratti da film dell’orrore, così concepito, pur non consentendoci di giustificare i fatti, crudi, efferati e delittuosi, ne sospende il giudizio. La chiave è sicuramente la sorprendente dolcezza di quest’uomo che evidentemente ci inebria, come la sirena per Ulisse, con il suono della sua voce. 
Ancora, Ombre folli, ombre che su corpi inerti, proiettano quella parte di sé, oscura e misteriosa, quella che riveliamo a tratti e che gelosamente nascondiamo. Quelle ombre, sono forse le nostre paure, i nostri fantasmi interiori. Forse sono le persone emarginate, che ogni giorno rinunciano ad una parte di sé. Come morti, vagano nella notte, in un cimitero pieno di lumini votivi accesi, dove solo la luce, pur facendo riaffiorare i dolorosi ricordi, porta pace e serenità. E così i nostri demoni o le nostre fragilità, appena placate, sanano da quella follia, che ha deformato i ricordi e attraversato il tempo. Gli sconfitti, gli emarginati, ritrovano il coraggio di vivere la loro semplice esistenza.  Assolta così è la funzione del teatro, che non interroga l’uomo all’interno di un’esperienza privata ma in un sistema collettivo e seguendo una procedura simile alla politica, lo pone al cospetto della sua dimensione pubblica. Perché come ricorda Alan Badiou, tutto ciò che accade a teatro è una “ res-publica “.

*Progetto Giovani Sguardi

Annarita Risola (Palchetti Laterali, Università del Salento)

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immagine di copertina Un giorno felice

Un giorno felice

Com'è cambiata Matera nel 2019

Visioni
di Gigi Mangia

La città è un bene comune, che si vive: nella bellezza, si conosce nella cultura, si abita con l’educazione. Paolo Verri, che dal 2011 al 2014 ha diretto con successo la candidatura di Matera a Capitale Europea della Cultura per il 2019 in qualità di Direttore del Comitato Matera 2019, ha declinato con successo questo modello, proponendo un metodo partecipativo dei cittadini e a lui vanno i nostri complimenti per il grande successo. 

Oggi è un giorno felice per il Sud e per Matera perché per la città dei sassi finisce il percorso di Capitale della Cultura d’Europa 2019. Matera è cambiata, il Sud è cresciuto perché finalmente si è svegliato l’orgoglio dei luoghi. È stata la forza della cultura quella che ha cambiato i territori, trasformando le cave in teatro, in sale conferenze e sale espositive per mostre d’arte. Ha rigenerato il Palombaro, una vecchia grande cisterna d’acqua in un attrattore di cultura; ha trasformato in sala conferenze Casa Cava, una vecchia struttura fatta come un imbuto rovesciato. Ha attirato investimenti, coinvolgendo gli operai del distretto del salotto, cambiando gli arredi della città. Matera si è imposta come meta turistica e così, finalmente, il Sud ha avuto la forza di far conoscere le bellezze dei paesaggi, unici per storia e geografia rurale e sociale; Matera, da capitale contadina, si è imposta come Capitale di Cultura d’Europa. Il parco tematico delle Gravine è una delle mete più attraenti di un turismo culturale desideroso di scoprire i volti e i luoghi della cultura contadina. Bisogna continuare e credere alla nostra cultura, ad avere fiducia, a resistere contro il pericolo di un turismo mordi e fuggi, il modello B&b che trasforma i centri storici delle città e dei borghi dei piccoli paesi in luoghi di consumo. Matera Capitale della Cultura d’Europa 2019 è stato un successo, un cambio di passo nel fare cultura nei luoghi con il coinvolgimento dei cittadini. Il manifesto delle parole non ostili è l’insegnamento più vivo che l’esperienza di Matera ci lascia e che noi dobbiamo condividere e veicolare con grande forza: il cambiamento del Sud dipende da quello che sapremo fare dopo l’esperienza di Matera Capitale della Cultura 2019.

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