Calendario

February 2020

Non sono previsti spettacoli per il mese selezionato.

immagine di copertina Il tempo della conoscenza

Il tempo della conoscenza

Critica
di Eleonora Lezzi*

È curioso quanto anche nella disperazione, anche nei momenti in cui servirebbe il conforto e la vicinanza, i pregiudizi riescano a costruire comunque muri attorno a noi che in apparenza ci fanno sentire sicuri, ma che in realtà ci lasciano sempre più soli con le nostre fragilità.

Mario e Saleh è un prodotto giovane, con il quale Scena Verticale  e Saverio Laruina, che ne è autore, regista ed interprete assieme Chadli Aloui, ci propongono uno spettacolo che sviscera i luoghi comuni e riprende le parole della gente, le ruba dalla quotidianità e le  ributta in faccia con tutto il loro verismo rivoltante e sfacciato. Quante volte le abbiamo sentite nei giornali, per strada, sul bus… parole su parole a cui si dà fiato senza attenzione. Quanto costa infatti fermarsi a capire e a conoscersi? Quanto tempo ci vuole per scoprire le differenze che ci accomunano? Perché un musulmano dovrebbe voler stare con un cristiano? che cosa ha in mente? Che cosa trama? c’è qualcosa che non va….si, è vero, c’è ed è la paura della diversità, figlia dell’ ignoranza.

Siamo in una tenda dopo un terremoto, in una tendopoli non meglio identificata. Lo spazio è claustrofobico, asettico e impersonale, il personale è rimasto sotto le macerie delle case distrutte dal sisma. Lì dentro c’è rimasto solo il guscio delle persone, pieno di rancore, amarezza, delusione e disperazione. Un’esistenza, quella di Mario, stravolta una volta e ri-stravolta ancora da una convivenza forzata e imprevista, ma soprattutto imprevedibile. Saleh è figlio di arabi, ma è nato in Italia. Parla arabo ed è un musulmano praticante. Ma questo non vuol dire che sia estremista; non vuole dire che sia un terrorista. Perché poi lo chiamiamo musulmano? Noi non ci chiamiamo cristiani, ma solo italiani. Già, perché noi siamo noi e poi c’è il “voi”: il “voi siete quelli degli attentati”, “voi siete pericolosi” e “voi siete diversi”,  questo è il paradigma di base, il muro contro il quale sbattere i pugni. Le parole di Saleh toccano perché sono vere, sentite. Affondano nel vissuto comune di chi viene additato quotidianamente con quel “voi”.

I personaggi entrano ed escono dallo spazio della convivenza forzata e della conoscenza difficile, lo vivono insieme e lo odiano insieme, sfogando l’imbarazzo di quella situazione così scomoda sugli oggetti, buste, zaini e borse che vengono fatte e disfatte, fatte e disfatte ancora e ancora, precarie, come precari sono i rapporti umani. Saleh, il voi, ha scelto di mischiarsi con il noi. Lo ha fortemente voluto e Mario si interroga incessantemente sul perché. Solo alla fine lo scoprirà, svelando il senso di una domanda ricorrente durante tutto lo spettacolo, su cui anche lo spettatore si interroga incessantemente. Alle sue prime repliche, lo spettacolo si mostra intelligibile su più livelli e ci restituisce con abbondante chiarezza un’immagine nuda e cruda, ma piena di speranza. Un lavoro che non si lascia intimorire dal tirare fuori i luoghi comuni, ma li usa per dimostrarci quanto essi siano veri e quanto ci corrompano nel nostro modo di guardare gli altri e il mondo.

*progetto di scrittura critica “Giovani Sguardi”

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Il coronavirus invisibile, la fragilità della modernità evidente

Visioni
di Gigi Mangia

Il coronavirus è invisibile, fa paura e causa la fragilità della modernità.

Si chiudono i teatri e i musei, le biblioteche e le scuole, il Duomo e la Scala a Milano, si dichiara la caccia alla ricerca “dell’infettato zero” e non lo si trova. E l’angoscia del pericolo aumenta perché non si riesce a vedere il volto dell’infettato.  Il vocabolario delle parole nuove, delle paure, della modernità, si è arricchito di una nuova, COVID-19, identificato ma sconosciuto e quindi difficile da combattere e da isolare: manca, infatti ancora, un vaccino. Il coronavirus è invisibile, ed è la sua invisibilità a fare paura, a causare terrore e a pretendere l’identificazione del portatore per difendersi e creare barriere di isolamento, le “zone rosse”. Sono stati sospesi i voli verso la Cina, chiusi i porti, isolate le grandi Province di 6 milioni di persone. Sono state chiuse le fabbriche, rinviate le mostre internazionali specializzate, ma è percepito tutto inutile, perché il virus colpisce e per di più, lo abbiamo in Italia, dove ha fatto già 4 morti. La globalizzazione è andata in crisi davanti ad una virus invisibile. L’Occidente dei paesi del sistema sanitario forte e organizzato, capace di curare tutti, di vincere le malattie e dare fiducia, oggi è in crisi.  Abbiamo fatto esperienze di epidemie. La mia generazione ha fatto il colera a Napoli negli anni ‘70. Da giovane degli anni ‘80, quando eravamo nel tempo felice di vivere i piaceri della rivoluzione sessuale arrivò l’AIDS a frenare i nostri ardori, a rifiutare di dare la mano agli amici, a pretendere la tazza di caffè bollente al bar senza essere macchiata del famoso rossetto. Negli anni successivi è stato un susseguirsi di epidemie: quella della mucca pazza, della peste suina, della Sars, in più gli incidenti delle centrali nucleari come quello di Chernobyl, degli attentati terroristici, quello dell’11 Settembre delle Torri Gemelle in America, a rovinare i nostri giorni, di figli fortunati, ancora in corsa con il benessere. Ora tutto è cambiato: la geografia economica, la Cina possiede il primo Pil per lo sviluppo; è la geografia sociale a rompere le vecchie regole e a modificare gli equilibri fra gli Stati e, soprattutto, a disorientare le nuove generazioni in crisi con il loro futuro. 

Siamo malati di incertezza e subiamo la fragilità della modernità, per questo, viviamo nel terrore. Antonio Scurati, in un suo articolo sul Corriere della Sera del 22 Febbraio “l’inerzia e l’isteria quando va’ in pezzi un’idea di modernità”, sottolinea proprio le difficoltà del nostro tempo. Scrive Scurati: “questo immaginario globale ci dice che la modernità ha fallito: quasi nessuno, purtroppo, crede più nel suo glorioso progetto di previsione e contro, nelle magnifiche sorti di progetto, ci dice anche un’altra cosa: non siamo più capaci di un equilibrato, adulto, (sano) rapporto con la morte”.  Quello della morte, è un tema centrale e ci trova impreparati, sia a viverlo, sia a rappresentarlo. I giovani di oggi, sfidano la morte lanciandosi nel vuoto dai ponti, dai grattacieli, dai treni in corsa, per affermare la forza dell’identità nello spazio di un’emozione. Nel soggetto virtuale non c’è proprio il codice di come vivere la morte e soprattutto, di come raccontarla. 

Per trovare il codice della morte bisogna tornare al senso delle parole, quindi, alla narrazione del morire. Ce lo insegna ancora Alessandro Manzoni, nei suoi Promessi Sposi, quando narra la morte di Cecilia in cui, la sua mamma, porta al carro la sua bambina morta, la bacia sulla fronte e poi torna nella sua casa e dalla finestra la saluta con l’ultimo sguardo d’amore, restando in attesa di altra morte. È una lezione che l’uomo contemporaneo ha perso. 

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Il Mediterraneo mare di pace

Il Mediterraneo mare di pace

Visioni
di Gigi Mangia

Il 23 Febbraio, sarà il Papa Francesco, a Bari, a parlare di pace nel Mediterraneo. Jorge Mario Bergoglio, vescovo della Chiesa dell’Argentina, sente viva la necessità e l’importanza di sostenere, nella sua pastorale, la pace, ed è l’unico leader al mondo, a poterlo fare e per di più, ad essere creduto. Il Mediterraneo, nel passato è stato mare di scontro politico e religioso. Fu proprio nel Mediterraneo, dove lo scontro portò alla rottura della Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente e dove fallì anche il progetto di tenere unita la chiesa, dall’Imperatore Carlo V, in lotta con il Monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, leader del Protestantesimo. Nella divisione della Chiesa, il Mediterraneo è stato scontro di civiltà e teatro di guerra, soprattutto dopo che le grandi monarchie europee coinvolsero nella loro lotta gli arabi. Il Mediterraneo è la strada che da Occidente porta ad Oriente. Il mare di due culture, di due grandi capitali: Atene e Gerusalemme. Di due civiltà, quella araba e quella cristiana in lotta per il dominio e per il commercio dei popoli tra le due sponde. È stata una divisione sofferta, una lunga guerra subita dai popoli lungo le due sponde. È stata una guerra combattuta nel potere assoluto del simbolo della Croce. La Croce della Chiesa sempre grande, centrale, sempre pregiata, di oro, di bronzo, di marmo. È stato il Vescovo Don Tonino Bello, pastore e profeta, quello che ha preferito la Croce semplice fatta del legno dell’Ulivo, l’albero simbolo del paesaggio e del pensiero del Mediterraneo, oggi scomparso dal Salento. Don Tonino non amava e non vedeva il potere assoluto e centrale del crocifisso nel rapporto e nel credo dei popoli. Il Vescovo di Molfetta, parlava infatti, del crocifisso provvisorio nella chiesa. Per Lui il crocifisso era l’inizio di un nuovo processo della storia della liberazione dell’uomo dal peccato: era una storia da fare passo dopo passo, da raccontare parola dopo parola, sempre in cammino. Don Tonino era pastore e profeta e aveva l’arte della poesia. Conosceva le parole. Le pesava di notte con la bilancia del dolore, nel silenzio del sonno. Le parole erano per lui gli utensili del suo pensiero, del suo essere costruttore di pace. Don Tonino era teologo e filologo, era profondo conoscitore della cultura di Atene e ricco della fede di Gerusalemme. Oriente e Occidente in Don Tonino non sono due mondi, due civiltà, ma una sola strada: quella della cultura delle convivialità unite nella capacità di essere fraternità. La marcia dei 500 a Sarajevo non fu solo un gesto di coraggio di ribellione del frate contro la guerra, ma un vero esempio di come superare la guerra civile di due civiltà tra di loro contrapposte, araba e cristiana, di famiglie divise  cristiani e arabi. Don Tonino è il santo del mediterraneo di pace. Tutti ci aspettiamo, da Papa Francesco la proclamazione di Don Tonino, Santo della Pace che possa finalmente guidare i popoli a superare la guerra a fare la strada della convivialità delle differenze, ad essere fraternità o chiesa unita come predicava il prete di Alessano.

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

1, 2, 3, 4, 5 ott

con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

OPEN PRACTICE OPEN MIND IN LIVING BODY

2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina La forza del teatro negli occhi dei bambini

La forza del teatro negli occhi dei bambini

Visioni
di Paola Pepe

Nella società dell’immagine spettacolare dove tutto è veloce e pronto, a che serve il teatro? È quasi un reperto archeologico del passato. Anacronistico per i nuovi nati e, a volte, anche per gli altri. La “generazione Z” è particolarmente complicata: nuovi valori, un virtuale che viene prima del reale e il difficile rapporto nella triangolazione con insegnanti e genitori. Quello che so per certo è che, pur passando gli anni e mutando le tipologie di connessione e di relazione, un filo rosso resta costante: bambini e ragazzi trovano un nuovo modo di “parlare agli adulti” attraverso il teatro. Non solo viceversa. Ne sono certa. Lo vedo accadere ogni giorno sotto i miei occhi. Li vedo crescere di anno in anno, fino quasi a non riconoscerli più. Vedo i loro occhi diventare profondi, vedo mutare il loro pensiero, strutturarsi la loro capacità critica. E mettere radici sottili sottili. Un piccolo miracolo d’artigianato dell’umano, di quel fare semplice proprio del teatro, che è ancora stupore e meraviglia.
Lo spazio-tempo, qui dentro, diventa luogo d’ascolto di sé e dell’altro, manifestazione poetica e a volte dolorosa (mamma, papà, insegnante mi vedi? Esisto per te?) delle loro fragilità, dei sogni e delle prospettive, della ragione e dell’emozione. Di quel sorriso, di quel pianto improvviso o di quella considerazione fatta a voce alta, nella sala buia, che ti lascia quasi senza fiato.
Quell’oggetto rettangolare e luminoso non è il demonio assoluto, è chiaro, ma le milioni di notizie che ci propone, le chat, i social, non trovano forza di umanizzarsi in un corpo. Ecco, il teatro riempie questo vuoto e aggiunge consapevolezza, mantiene vicine le persone e dà senso alle storie. E’ “caldo” ed è bello e potente, a volte scomodo, proprio perché emoziona. Nel foyer di Koreja i bambini colorano, giocano, costruiscono, esplorano. Mangiano. A volte corrono, fanno amicizia. E fanno amicizia anche i genitori e scambiano idee, ricordi, domande. Si perché, il teatro, almeno quello che piace a noi, non ha risposte. Non ha soluzioni né certezze. Solo sentieri e voci. Tracce, occasioni. È un teatro che costruiamo giorno dopo giorno attraverso l’ascolto e la condivisione. Un teatro che riconosce e rivendica nel suo fare, l’autonomia del più piccolo e la sua dignità; un teatro in cui adulti e bambini, figli e genitori si comprendono nel senso più intimo del termine, nel senso di prendere, di contenere in sé, racchiudere. Un contenere che è includere; un capire che è afferrare. Ogni spettacolo è una proposta di gioco “serio” che rivolgiamo ai bambini, ai loro genitori, ai maestri e a tutti gli adulti. È un invito a scoprire la possibilità di pensare, di pensare da soli, di pensare insieme. Gli spettacoli che proponiamo alle famiglie o alle scuole chiedono sempre “qualcosa in più”. Un passettino al di là del semplice, del certo, del conosciuto. E già, perché il teatro non ti passa davanti, devi proprio andare a cercarlo. E non hai un telecomando per cambiare canale o spegnerlo. Sei lì, da solo in mezzo agli altri, anche se hai appena 3 anni e le emozioni bussano. Un piccolissimo, meraviglioso, prezzo da pagare per diventare grandi. Poco alla volta. Basta pensare agli spettacoli in cartellone quest’anno come il Cappuccetto Rosso di Zaches Teatro o Ricordi? del Teatro dell’Argine che affrontano tematiche “serie” o ancora Io e niente del Teatro Gioco Vita o La Gatta Cenerentola di Oltreponte Teatro in scena a febbraio.
Il teatro mi racconta ogni giorno che nessun tema è tabù per i bambini. Nemmeno il sesso, la malattia o la morte.
Spesso mi confronto con genitori spaventati, che non immaginano la forza del proprio figlio. Ognuno di loro ha risorse diverse per gestire le emozioni e, a volte, ne ha molte più di un adulto. Inaspettate. Pensare che non debbano avere paura, li spinge solo ad essere più fragili. E così li assolviamo dalla difficoltà di provare emozioni e di misurarsi con esse. Aiutarli a sviluppare abilità sociali ed emotive è una delle cose più importanti che possiamo fare per prepararli ad un futuro sano. Se raccontiamo loro l’importanza della “scelta” ognuno comprenderà l’importanza dell’assunzione di responsabilità. Fa anche questo il teatro. Questo proviamo a fare quotidianamente.

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Parlare di migrazione è pop

Parlare di migrazione è pop

Visioni
di Eleonora Tricarico

Con i soliti termini, con le consuete frasi fatte, con i ragionamenti (il)logici che filano a pennello.

Quanta complessità in questo argomento che abbraccia un mondo intero e che, la maggior parte delle volte, è proprio di più abbracci sinceri che ha bisogno. Il tema della migrazione divide: una sola parola interpretata diversamente fa smuovere gli animi assopiti nel proprio angolino, per il gusto di dire qualcosa, ecco tutto.

Su questo delicato tema, però, dovremmo essere tutti un po’ meno in: meno intolleranti e meno indignati, puntare di più sui propri forse. Forse dovremmo  evitare di cadere in sterili dialoghi, forse dovremmo porre a noi stessi delle domande diverse. Forse.

Un errore condiviso in un mare di disinformazioni ed ecco perché sul tema della migrazione necessitiamo tutti di meno punti di vista ma di più visioni di qualità.

Confondere i principi dell’accoglienza e i diritti umani con un’ideologia politica è il primo errore che si compie prima di cadere nell’insana retorica, seguito da quell’inconsistente consapevolezza che ci sia una scala di degni. Chi si merita una bella vita e chi no. Ed è proprio qui che dovremmo ricominciare a costruire un pensiero laterale, attraverso gli strumenti giusti, quelli che non limitano, ma spalancano.

Inquesto mare enorme di distorsioni che da tempo una certa narrazione del fenomeno sta inoculando nella nostra Penisola, ciò che dovrebbe veramente affondare è l’ignoranza di chi chiude. Braccia, porti e menti.

Ed è qui che
subentra il teatro, con la sua educazione e con la sua cultura: ci siamo
occupati spesso di migrazioni proponendo una concreta opportunità per misurarsi
con questa tematica, per smontare le proprie certezze e ricostruire alternative
convinzioni. E fra pochi giorni abbiamo in cartellone Mario e Saleh, lo
spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina con Chadli
Aloui. Il rapporto tra i due attori sul palco costruisce un ottimo trampolino
di lancio su cui riflettere. Scoprire un’umanità nell’altro, non è poi così
difficile ed impossibile farlo, e Saverio La Ruina ci aiuta proprio in questo. Una
nuova narrazione è possibile, quello di cui abbiamo più bisogno è solo più
delicatezza e attenzione.

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LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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con Domenico Castaldo, Marta Laneri e Zi Long Ying del LABPERM

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2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Bulli non si nasce, si diventa

Bulli non si nasce, si diventa

Visioni
di Gigi Mangia

Il bullismo è il male che ho dentro; la difficoltà di vivere le mie emozioni; la fatica di fare e trovare la via alla normalità. Io godo dell’inferno delle tue emozioni, che bruciano nel silenzio la tua vita, perché io non ti so rispettare.

Il 7 febbraio, giornata Nazionale del Bullismo,
teatro Koreja l’ha vissuta con gli alunni delle scuole medie della provincia
con lo spettacolo Terry. del teatro delle Briciole.
Bisogna dire, che la settimana scorsa la Camera dei deputati ha approvato la
legge sul bullismo – ancora in attesa di approvazione dal Senato – con la quale
è stato istituito un fondo di soli 200000 euro per tutte le scuole dell’intero
Paese. L’Italia rispetto al bullismo è indietro, mentre nelle scuole dei Pesi
d’Europa esiste la figura dello psicologo, in Italia tale servizio è affidato
alle figure obiettivo e manca un finanziamento per la formazione di tutti gli
insegnanti. Il bullismo è un fenomeno generale, che riguarda tutta la società e
interessa tutte le agenzie dell’educazione, dalla scuola alla famiglia, dal
quartiere alle biblioteche.

Bulli non si nasce ma si diventa.

Woody Allen, una voce importante nel mondo
cinematografico, attento indicatore del soggetto sociale, afferma che: “viviamo
in un tempo di crisi, della morte di Dio, di Carlo Marx, della fine delle
classi sociali, della società, della crisi dell’Io, della sua frantumazione,
dell’Io liquido, dell’emergere di tante forme dell’Io fragile”.

L’Attore Davide Giordano nel suo spettacolo ha
avuto il merito di aprire, con le sue domande, le porte delle emozioni dei
preadolescenti, di quello che Platone chiamava Emozioni dell’anima e poneva
alla base dell’educazione.

lo spettacolo comincia proprio domandando,
interessando il pubblico: “chi sono Io?”

Sono l’Io handicappato, sono l’Io spastico, sono
l’Io grasso, l’Io sbruffone, l’Io faccia di topo, l’Io muso di cane. Sono Io
quello che è incapace di parlare, che ha paura e si siede all’ultimo banco per
stare solo, isolato! Io sono l’Io che sta male. Il bullo è quello che ha perso
le parole giuste e usa quelle sbagliate per fare violenza, per creare consenso,
per affermare il suo potere, la figura del bullo trova il suo agio di
esercitare il male nella figura del camaleonte stampato sulla maglietta di
Terry che ha la facoltà di mimetizzarsi, di scomparire, di nascondersi, di non
essere visto. È il bullo che trova il suo agio e il suo terreno nel Web.

La Pedagogia di Terry è quella di mettere in
evidenza l’importanza dell’educazione, dell’intelligenza emotiva come principio
educativo e formativo, in particolare dei nati digitali nel primo quinto di
secolo del terzo millennio. La famiglia, la scuola, il quartiere, la città,
sono come le vene che attraversano la rete dei rapporti nelle affettività.
L’essere corpo, nel tempo e nello spazio, vuol dire avere la percezione del
passaggio dalla realtà reale a quella virtuale, nella quale l’Io è vuoto, è un
guscio senza sentimenti, privo di passioni.

Koreja è teatro di ricerca. La sua parola
bandiera, nell’azione culturale, è quella del rispetto, del riconoscimento
dell’Altro, della sua accoglienza. La sua battaglia condivisa con le scuole, è
quella dell’educazione aperta ed attenta alla generazione dei nati digitali
perché ritiene fondamentale che abbiamo il dovere non di criminalizzare lo
Smartphone o l’IPad, ma di educare al loro uso.

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance

immagine di copertina Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Scintille: il senso della memoria e il dovere del teatro

Critica
di Eleonora Lezzi*

Una storia di donne, una storia di lavoro e
di sfruttamento, una storia di povertà e migrazione. Una storia attuale,
tragicamente e sorprendentemente attuale. E’ questo che l’autrice Laura
Scignano ci racconta con il suo Scintille attraverso la voce e i gesti di una
Laura Curino che si fa simbolo e persona.

Se non fosse per il costume secondo la moda
dell’epoca e per quelle vecchie macchine da cucire messe lì sulla scena, le
oggi tanto ricercate e alla moda Singer…se non fosse per quella singola lampada
ad olio che alla fine dello spettacolo si accenderà infondendo nella sala
l’odore  pungente del petrolio, potremmo
tranquillamente pensare che quella raccontata sia la storia di una delle tante
fabbriche tessili che oggi sfornano gli abiti che noi stessi indossiamo. Ma non
è così. Siamo all’inizio del ‘900, siamo a New York, siamo “all’America”; il
Sogno trasformatosi in un incubo.

Caterina, Lucia e Rosa Maltese diventano,
grazie ad una infaticabile e coinvolgente Laura Curino, la voce delle  146 vittime di quella scintilla che alle
16:40 del 25 marzo 1911 bruciò l’ottavo piano della fabbrica di camicette nella
quale lavoravano.

Il filo delle parole scorre veloce da una
all’altra, cuce e scuce legami, svela le complicità e i dissidi tra una madre e
le figlie, tra due sorelle, tra colleghe; ricama nitido il dissidio stridente
tra la necessità e la povertà che ti portano ad accettare qualsiasi condizione
e il bisogno di tornare a sentirsi umani, a veder riconosciuti i propri
diritti. Un ritornello che ci è abbastanza familiare, anche oggi.

Il tempo scorre, le parole si susseguono, i
toni caldi delle luci materializzano perfettamente sulla scena un tempo e uno
spazio che avvolgono lo spettatore in un calore che non è familiare, che non è
accogliente e confortante ma è un calore soffocante e claustrofobico, un calore
di fuoco, fumo e polvere mischiati insieme.

Si innesca la scintilla e tutto precipita, è
un attimo. All’inizio si fa fatica a realizzare quello che in realtà sta
succedendo, a comprendere e a sentire la trappola mortale; il racconto nelle
parole della Curino scivola con lucidità. In un attimo ti trovi ad essere
trascinata dalla folla che cerca disperatamente una via di fuga. La tensione
sale… Caterina, madre forte come una roccia, lotta controcorrente per salvare
le sue figlie. Deve credere che si salveranno, non le può abbandonare e non
puoi abbandonarle neanche tu! La commistione tra la bravura attoriale di Laura
Curino e la bravura autoriale e registica di Laura Scignano fa si che diventino
un po’ figlie e sorelle anche per te. La speranza si trasforma in stretta allo
stomaco quando per Lucia e Rosa lentamente si materializza la consapevolezza
dell’inevitabile che lascia fantasmi senza vita e ombre fredde; le luci
cambiano, impallidisce l’immagine, quella che percepiamo non è più la paura, ma
il terrore. La consapevolezza di essere le vittime sacrificali di
un’ingiustizia ma anche la speranza, viva fino alla fine, di Lucia che, proprio
grazie a quel sacrificio, le cose possano ancora cambiare.

Laura Curino passa da una all’altra, prima è
madre, poi figlia, poi adolescente, poi cento persone e anche di più, ma tutto
avviene senza caos e senza disordine. Agisce e parla con delicatezza, senza
eccessi, anche quando deve rappresentare una madre dura, d’altri tempi, una di
quella a cui la vita non ha riservato di certo tante carezze, o quando da un
momento all’altro cambia e diventa un’adolescente piena di vitalità e
speranze  o ancora quando inizia quel
vortice di eventi che porteranno al dramma…un’azione di una tensione forte che
esploderà poi, sempre con tenera delicatezza, nella voce ferita e svuotata di
una madre a cui la vita è sfuggita via dalle mani.

Nel buio della sala qualcuno piange, si
sentono i sussulti e si intravedono gli occhi lucidi. D’improvviso le figure
fino a quel momento solo evocate delle tante vittime diventano nomi, cognomi,
età; diventano donne e ragazze, potremmo dire bambine, ma anche di uomini. Una
cascata di nomi che alla fine si intrecciano e si mescolano affinché il ricordo
diventi valore concreto e non si dissolva nella massa indistinta e nei numeri.
I numeri sono per gli oggetti e non per le persone, non per donne e uomini con
proprie identità, con desideri, caratteri unici e insostituibili ciascuno con
un suo sogno e una speranza in quella terra nuova tanto lontana da casa.

Tutto infranto, tutto distrutto nell’attimo
di una piccola semplice scintilla.

La riflessione sul presente è inevitabile e
ti accompagna per tutto il tempo.

Alla fine dello spettacolo, durante
l’incontro con Laura Curino, qualcuno chiederà : “ma se la storia si ripete,
questa cosa del ricordare, di commemorare, serve davvero? ”

“ Beh, risponderà lei con una semplicità
disarmante – abbiamo altri strumenti noi?”

*Progetto Giovani Sguardi

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1 ott

LABPERM /Domenico Castaldo

LE PECORE DELLA LUNA

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2 ott

Carla Pollastrelli , Eugenio Imbriani

TRA RITO E PERFORMANCE: catarsi e trance