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January 2022


29 nov

immagine di copertina È forse questa la vera “Misericordia”?

È forse questa la vera “Misericordia”?

Critica
di Annarita Risola

Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! (A. Manzoni -Promessi Sposi- cap. XXI)

E’ il ticchettio ritmato e veloce dei ferri da maglia ad accendere l’attenzione del pubblico e le luci in sala. In fondo al proscenio su una linea orizzontale, a quattro sedie, si alternano giocattoli e cavallucci. Partendo da sinistra, siedono due donne, un giovane uomo ed un’altra donna. Le prime due parlano a bassa voce e se la ridono di gusto, la terza, seduta a destra sferruzza, di tanto in tanto le guarda con aria triste e tende loro l’orecchio, nel tentativo di capire ciò che si stanno dicendo. Vicino a lei un ragazzo, magro, pallido, con addosso una veste a fiori piuttosto malridotta, si muove in maniera strana, dondola, proietta il busto in avanti con dei movimenti a scatto e ripetitivi.

Intanto una delle due donne si alza, viene avanti e guarda il pubblico, la segue l’amica, poco dopo si avvicina anche la terza, quella dai capelli rossi e ricci, raccolti come se fosse un pon pon. Le donne però continuano ad ignorarla, finché quest’ultima non grida “Arturo” e questi immediatamente corre verso di lei. Ma perché Bettina lo ha vestito così? Questa è la domanda che Nuzza e Anna le pongono. Quel vestito preso dai rifiuti apparteneva ad una di loro, viene accusata di rubare il cibo dal frigo, di non pagare l’affitto…ma Arturo è lì che ascolta e l’abbraccia forte. La lascia solo dopo essere stato chiamato più volte da Anna, che gli mostra una scatola nella quale c’è una collana e una foto di Lucia, la madre di Arturo mentre era incinta.

“Oh che bel castello marcondirondirondello”, sulle note di questo girotondo, inizia il racconto dell’infanzia di Arturo, che ora indossa una vestaglia fiorata da donna e gira intorno a sé stesso, al centro di quella che ora è la sua stanza, con lo sguardo felice e con in mano uno scopino per la polvere. “Dove c’è un bambino c’è sempre la crianza” ricorda Anna, mentre come fosse una favola racconta la storia di Lucia, loro amica e collega di quel particolare mestiere, che la portò ad incontrare quell’uomo detto “Geppetto” poiché falegname. S’intratteneva con lei come tutti gli altri, ma le portava dei dolci e lei si era innamorata, voleva cambiare vita e così era rimasta incinta, lui però aveva il vizio di bere e diventava violento, la picchiava, quella sera più delle altre volte, persino sulla pancia… perciò Arturo nacque di sette mesi e Lucia morì subito dopo. “Ninna nanna, ninna nanna, nessuno ti vuole bene come la mamma”.

Cambia l’atmosfera, le donne sciolgono i capelli mentre Arturo balla e ancora continuano a spogliarsi, tutto acquista un ritmo più veloce, movimenti ammiccanti, sguardi seducenti, simulazioni di amplessi, e Arturo le imita, indossa i tacchi e passeggia avanti e indietro finché non prende un sacco nero e lo svuota sul pavimento, facendo rotolare qua e là un’infinità di giocattoli che prontamente Anna, Nuzza e Bettina
cercano di raccogliere, veloci nel gesto, quanto nel modo di parlare. Ma è tempo di riposare, perché presto passerà il pulmino che lo porterà in una nuova casa, con una stanza tutta sua, con la finestra dalla quale potrà vedere il sole.

Ora anche Arturo aiuta a raccogliere i suoi giocattoli consentendo alle donne di sedersi e a guardarlo mentre balla, sempre meno goffo, come un uccellino che sta per spiccare il volo, non è più un ragazzo fragile ma una libellula, un danzatore Sufi senza gonna, che ruota, ipnotizza, incanta. Nulla sembra avere più importanza e nulla pare poterlo fermare…tranne il suono di un carillon che lo stordisce tanto da farlo addormentare su di una piccola copertina celeste, adagiata a terra, sulla
quale si rannicchia e dalla quale si rialza pur continuando a dormire, ormai sonnambulo, pare quasi cadere mentre le donne, sempre lì, sono pronte a prenderlo.

La canzone de “Le avventure di Pinocchio” (memorabile leitmotiv di Fiorenzo Carpi), dà il via alla sua vestizione, che esegue in maniera autonoma, ad uno ad uno prende i suoi vestiti che sono adagiati sulla sedia, la camicia, i pantaloncini, le scarpe i cui lacci non annoda e pur ricominciando a ballare, inseguito dalle tre donne, non cade. Ma ecco da lontano si ode il suono della banda che lo porterà alla sua nuova vita e alla sua splendida stanza dalla quale ogni mattina “Trase u suli”.

La valigia è pronta, lo scrigno con la collanina appartenente alla defunta madre Lucia pure, poi, la colletta, soldi presi dal petto, dalla scarpa o semplicemente dal borsellino, quest’ultimi sono quelli di Bettina, che gli regala ben 300 euro, il carillon, il cuscino della culla, il primo maglioncino ed il bambolotto di Charlie Brown, ed ancora i dentini di latte e le favole della buonanotte. Ecco, Arturo è pronto per andare…un ultimo sguardo, un ultimo saluto… e poi la parola “Mamma”
che fa girare tutte e tre di scatto, ancora un ultimo saluto prima che il suono della banda lo catturi e lo accompagni verso il suo nuovo destino.

Madri, amiche, nemiche, compagne, colleghe…semplicemente donne. Donne che si alleano, vivono insieme e decidono ciò che è meglio per Arturo, quel figlio adottato da tutte e tre, senza pensarci un attimo, come dono d’amore nei confronti della loro amica Lucia. Madri sin dal nome “nomen atque omen” diceva Plauto. Anna, Nuzza e Bettina, ossia Anna la madre di Maria, Nuzza o Annunziata cioè Maria e Bettina o Elisabetta la cugina di Maria, insomma le donne dell’infanzia di Gesù/Arturo “la stella più luminosa” (così come è definita la stella della costellazione del Boote).

Suggestivo il fermo immagine di una maternità trina, che abbraccia la purezza e l’ingenuità di un ragazzo che pare anche comprendere la necessità di andare via da quella casa, ed in qualche modo di crescere, raccogliendo i suoi giocattoli e vestendosi per la prima volta, in
maniera autonoma. Un distacco sofferto ma inderogabile. Donne unite anche dalla necessità economica e da quella scelta lavorativa che fa dei loro corpi oggetti, che si mostrano, che ostentano una sessualità non necessariamente sensuale ma semplicemente primitiva, che si offrono allo sguardo di un pubblico chiamato suo malgrado ad osservarli.

L’accenno alla violenza perpetrata nei confronti di Lucia da parte del corteggiatore/cliente e la sottolineatura del senso di colpa delle altre per non aver denunciato il fatto, è un valido esempio di ciò che ancora spesso accade in ambienti degradati, dove la violenza domestica pare sia la norma e tutto venga minimizzato per evitare ritorsioni o azioni violente ben più gravi; dove si tace per paura e non si denuncia per
sfiducia nelle istituzioni.

Il tema della disabilità è affrontato senza enfasi, non c’è retorica né pietismo, c’è solo l’urgenza di prendersi cura di una creatura che necessita di affetto e di assistenza, quel “fare” spontaneo e naturale non necessariamente delegato ad una madre biologica ma ad una, ed in questo anomalo caso a tre “donne”, che si donano, si offrono con generosità e si privano anche della propria dignità pur di affrontare il domani, esistere e resistere.

Emma Dante, a suo modo, restituisce potere ai sentimenti, all’essere umano e ci consente di andare oltre la forma, la grezza superficie, a scavare in terreni aridi nei quali trova pur sempre rivoli di cruda poesia. La scelta di recitare parti del testo in dialetto siciliano, per l’esattezza quello palermitano (n.d.r. Emma Dante è nata a Palermo), è quasi come un marchio di fabbrica che le consente di contestualizzare e rendere prezioso quel linguaggio ricco di contaminazioni, che diventa suono, melodia, che solca il terreno e dissotterra scheletri, violenze
familiari, frutto di arretratezza culturale e morale.

Il dialetto che da suono si fa racconto e da melodia narrazione, costruisce una vera e propria partitura, che insieme al ritmo sottolinea emozioni e trova un suo fondamento interpretativo ed un suo peculiare significato. Evidente il riferimento a quel teatro nel teatro, che nasce con Aristofane e Plauto, che racconta, intreccia, rimanda a luoghi e a tempi lontani, ma che a differenza di Pirandello non sfugge dalla realtà oggettiva e non si nasconde dietro un mondo irreale, ma l’affronta e
l’analizza, con la dichiarata volontà di manifestare  l’importanza di prendersi cura di qualcuno, anche se quel qualcuno non ci appartiene, e di fornirgli gli strumenti giusti per poter divenire autonomo ed infine, restituirlo al mondo non appena ci si è resi conto che è pronto a volare. Dunque, è forse questa la vera “Misericordia”?

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