Il teatro scava. Sempre.
intervista a Cesar Brie
Interviste
di Annarita Risola
César Brie, argentino alla nascita, ha vissuto in Bolivia, Danimarca, Italia… Ha un suo luogo del cuore o la sua casa è lì, dove la porta il Teatro?
Proprio così, vado dove mi porta il teatro, ma ho diversi luoghi del cuore. Argentina prima, perché lì si parla la mia lingua e perché la patria di un uomo è la sua infanzia, credo fosse Rilke a dirlo. Il luogo degli affetti, dei ricordi e delle forme specifiche del dire e del fare che creano il nostro primo humus culturale, anche se le letture, tantissime da bambino, mi facevano visitare il mondo intero. Ma anche l’Italia dove sono arrivato fuggendo dalla violenza della classe dirigente Argentina, che negli anni 70 ha sterminato chiunque agisse per proporre un paese diverso dall’umiliante destino che ci hanno imposto con la forza. E la Danimarca dove ho vissuto 10 anni a fianco alla mia straordinaria e indimenticabile maestra Iben Nagel Rasmussen. I
danesi mi hanno accolto, dato un passaporto, ospitato. Ho imparato a conoscere un popolo pieno di senso dello humour, rispettoso e affabile, l’esatto contrario del luogo comune che vede gli scandinavi freddi e distanti. Infine, la Bolivia dove ho costruito un teatro e aiutato a vivere di teatro, inteso come vocazione e dedizione, tante persone in un paese dove nessuno considerava il teatro una professione. In Bolivia ho imparato tanto, a rispettare i diversi, a non temere di non essere capito, a lavorare in povertà gioiosa e a capire che il tempo è la principale ricchezza di cui abbiamo bisogno per creare opere d’arte. L’altro luogo del cuore sono gli incontri con persone e artisti che mi hanno dato tanto. Tra questi Iben Nagel Rasmussen, Antonio Attisani,Gabriel Martinez e gli attori che con la loro dedizione e disponibilità mi hanno offerto corpo voce e sensibilità per creare opere insieme. E tutti gli amici la cui lista sarebbe immensa da compilare, che mi hanno aiutato, sostenuto, accolto e senza i quali, non sarei altro che un folle solitario.
Lei parla di un “teatro concreto, semplice e non intellettuale”, perché?
Ho lavorato per persone e pubblici molto diversi. Ho capito che il teatro ha bisogno delle differenze e che quello che risuona in un luogo o in una classe, risuona in modo diverso in altri ambienti. Così ho imparato a cercare nel teatro i paradigmi del nostro presente che, tutti o quasi tutti, possono riconoscere. Spesso confondiamo cultura con nozioni o istruzione, i pregiudizi e le mode ci impediscono di cogliere lo spirito del tempo, riteniamo il centro solo quei luoghi in cui girano maggiori quattrini e la visibilità è maggiore e non capiamo che dalle periferie lo sguardo vede meglio, perché non è sepolto in se stesso.
Qual è il suo pubblico ideale?
Il pubblico ideale è eterogeneo. Mi piace lavorare per pubblici mescolati, dove lo stupore del ragazzo si impregna della nostalgia dell’anziano, dove il pregiudizio di colui che arriva a giudicare si sgretola contro la reazione di chi viene a divertirsi. Ho avuto tanti pubblici e ho vissuto certe volte la sensazione che pubblico e artisti erano uniti da qualcosa di più grande…nell’emozione, nel sorriso, nella commozione, in quello spazio dove mente e cuore si incontrano e si arrendono a vicenda.
Come ha vissuto il periodo del lockdown?
Sono rimasto chiuso in un teatro. Provavo in sale vuote, scrivevo, riflettevo, Ho fatto i conti con molti aspetti della mia vita, ho scritto lettere, ho perdonato e chiesto scusa, mi sono interessato della sorte di persone che avevo sepolto nell’indifferenza, ho ripulito rancori, chiuso contenziosi e guardato con altri occhi le vicende che mi riguardavano. Ho scritto insieme a un caro amico, Antonio Attisani, un lavoro teatrale che è diventato una introspezione giocosa, una commedia, degli elementi che compongono la nostra vita artistica. Quindi, abbiamo riflettuto sul nostro mestiere e la nostra vita. Il risultato è “Boccascena” un’opera teatrale che debutterà a fine gennaio a Ravenna. Dopo due mesi di scrittura isolati, abbiamo trasgredito le proibizioni e abbiamo cominciato a provare clandestinamente. Tutto questo per me è stato meraviglioso. Poi la pandemia continuava, le risorse finivano, le elemosine statali a malapena mi aiutavano a sopravvivere. Quindi a questo primo periodo di riflessione, ascolto, scrittura e lavoro quasi in solitudine, è seguito un periodo sconfortante di stanchezza. Io e Attisani poi, siamo andati a vivere insieme fuggendo da Milano e abbiamo trovato tra le colline della Alta Val Tidone un paradiso. E proprio qui, adesso, sto costruendo un’isola del teatro. Un luogo dove provare, allenare, fare seminari e incontri destinato a me e a quelli che ne avranno bisogno. Un luogo dove praticare, provare, indagare, studiare, allenare il teatro in modo ritirato e disponendo del tempo, sempre il tempo che serve ad approfondire, cercare, sperimentare e finalmente creare nuove composizioni.
Nei suoi spettacoli ogni personaggio si esprime in profondità. Perché questa necessità di scavare nei sentimenti?
Il teatro scava sempre. Con luce, con ironia, con dedizione, con il corpo, la voce e gli oggetti, gli attori indagano e ripropongono agli spettatori specchi incomodi, grotteschi dove tutti, attori e spettatori, possono contemplare chi sono, dove vanno.
Secondo lei in Italia il Teatro può definirsi “indipendente”?
Purtroppo, no. Lo zampino dello Stato che finanzia chi vuole e le
regole con le quali si realizza il teatro in Italia ostacolano la imprescindibile indipendenza di cui gli artisti avrebbero bisogno per creare. La politica ha messo lo zampino sugli artisti e sulle compagnie e destina soldi a poche esperienze quando dovrebbe sostenere molto di più gli artisti che emergono, quelli affermati che ancora oggi sono costretti a mendicare a qualche assessore il loro diritto di creare. Urge una vera legge sul teatro, urge cacciare via dalle loro comode poltrone romane, personaggi nefasti che restano lì malgrado cambino i governi e determinano chi vive e chi annaspa. Bisognerebbe tornare a un sistema grazie al quale gli artisti possano mostrare il loro lavoro sempre e sia il pubblico a decidere con la sua presenza, l’esistenza reale dell’evento teatrale nelle sale. Vedremo gruppi senza quattrini riempire le sale e carrozzoni pieni di risorse presentarsi di fronte a platee vuote. Il pubblico sa riconoscere qualità e poesia, mentre gli assessori, di norma, cercano di propinare al pubblico brodaglia televisiva.
Posso chiederle cosa la spaventa di più e cosa la rende felice?
Mi spaventa rimanere intrappolato dalla vecchiaia e non accorgermene. Vorrei avere la lucidità di poter scegliere, quando la carcassa non funzioni più, di togliere il disturbo. Non mi spaventa la morte, ma la decadenza fisica e il rincoglionimento. Mi auguro una morte nel sonno come è capitata a mia madre. Ho lavorato abbastanza per meritarmela. Poi mi spaventa constatare che la coscienza dei diritti degli uomini non ci abbia fatto approdare a una società più giusta. E che la democrazia, in cui credo strenuamente, sia ormai ostaggio dei pescecani della finanza e dei demagoghi della politica. Mi rende felice lavorare ancora, vedere i giovani sognare e lottare per le cose in cui credono e passeggiare nella natura.
C’è ancora qualcosa che vorrebbe realizzare come uomo e come artista?
Sì. Vorrei scrivere un romanzo, un libro di memorie, montare due o
tre lavori teatrali, fare un film, raccogliere le mie poesie e pubblicarle. Insomma, vorrei poter lavorare ancora.
Si dice che ci siano incontri che ti cambiano la vita. Ce n’è stato uno che ha modificato il suo modo di vedere le cose?
Gli incontri della mia vita? Una donna che mi ha dimenticato molti
anni fa, nata il mio stesso giorno, anno e ora, che nella mia memoria è il paradigma della bellezza interiore e per la quale non sono nulla. La mia maestra di teatro Iben Nagel Rasmussen. Un uomo che mi ha cambiato la vita si chiamava Gabriel Martinez, antropologo cileno, un saggio luminoso e solare, un amico fraterno e un padre spirituale. E poi, l’incontro con Antonio Attisani, che non mi ha insegnato a pensare perché come dice lui, per pensare bisogna avercelo il cervello.
Si può esprimere la propria politica anche a Teatro, attraverso l’uso corretto della parola. Lei lo fa?
Il teatro non è un luogo di trasmissione di idee. Il teatro è un luogo di esperienza. Io indago con il teatro, attraverso i corpi, le immagini e le parole.
L’intervista è stata realizzata in occasione de: “La riparazione” spettacolo con la regia di Cesar Brie visto a Lecce / Cantieri Teatrali Koreja / Il Teatro del Luoghi Fest / 17 e 18 Luglio 2021 nell’ambito di AIDA PROJECT (Adriatic Identity Through Development of Arts) Progetto co-finanziato da European Union under the Instrument for Pre-Accession Assistance (IPA II) Interreg IPA – CBC Italy – Albania – Montenegro