Da Freetime all’arte visuale
Intervista a Gian Maria Cervo
Interviste
di Annarita Risola
Quanto della cultura partenopea a lei cara attraversa i suoi personaggi?
Direi molta, moltissima e non solo nei personaggi, anche e soprattutto negli intrecci. C’è sicuramente la dimensione barocca della cultura napoletana, una dimensione che sta sempre a un centimetro dall’anarchia, anzi, che spesso la tocca proprio. Mi sento un piccolo, piccolissimo, microscopico Gesualdo da Venosa, un piccolo Principe di Sansevero, ma forse sono solo uno dei tanti prodotti della loro
alchimia.
Freetime, scritto in collaborazione con i fratelli Presnyakov, si conclude con: “Vi vogliamo bene, nessuno è responsabile”. Alla luce di quanto sta accadendo oggi in Afghanistan, si sentirebbe ancora convinto di far concludere il suo spettacolo con questa frase?
La nostra è una battuta provocatoria. Quindi sì, continuerei a provocare il pubblico sulla sua responsabilità. Credo che siamo tutti responsabili, io per primo. Voglio raccontarle questa cosa sull’Afghanistan. Venti anni fa lavoravo alla Deutsches Schauspielhaus di Amburgo come autore in residenza e il collega Roland Schimmelpfennig mi parlò dell’idea di provare a organizzare un Festival di drammaturgia contemporanea a Kabul. Io lo guardai come se stesse scherzando e feci cadere la cosa. Oggi avrei voglia di andare in quella città afghana, che so essere stata vivace e piena di fermenti culturali, a salvare una donna, un ragazzo gay, una persona povera e discriminata. E allo stesso tempo mi dico che ho paura, che non avrei gli strumenti per agire e mi dico anche che la paura è una scusa. Il problema è che siamo animali routinari e questa cosa è il maggiore ostacolo di fronte a una presa di responsabilità. Come drammaturgo mi sento investito del compito di smascherare le routine, ma mi chiedo se questo sia abbastanza.
Freetime, ha una doppia lettura, colta e popolare. Perché usa questo doppio registro? A chi si ispira?
Sono un lettore, uno spettatore e un visitatore onnivoro. Dai maestri dell’arte rinascimentale a Quentin Tarantino, da Virginia Woolf al cinema asiatico, credo di avere debiti di riconoscenza culturale verso molte persone e movimenti. Mi piace coinvolgere il pubblico attraverso l’inserimento di una serie di interessi, anche confliggenti, nei personaggi e nelle vicende delle mie opere. A volte inserisco interessi anche molto lontani dai miei. E mi piace entrare nei mondi dei miei testi mettendomi allo stesso livello dei miei personaggi, dialogando con loro, scoprendo tutto il trash che ho dentro ma senza nascondere la mia ricerca culturale e intellettuale. Altrimenti farei del paternalismo. Spero che questo spieghi questo doppio registro, come lo ha chiamato lei.
Come un quadro in movimento, Freetime, non è solo ricerca della parola ma del corpo. Un corpo che si esprime nelle sue intime esigenze, esasperandole. Perché questa necessità di eccessi?
Perché abbiamo bisogno di guarire i nostri corpi per guarire le nostre città, i nostri paesi,il nostro mondo. L’eccesso può essere la medicina o il segno del disagio. Non sta a me giudicare. Ma è ai limiti, ai limiti della pressione, che si trova un po’ di verità.
Cos’è per lei amorale?
Abbandonare le persone alle loro convinzioni
La storia, l’arte, la scienza, la politica, cosa l’appassiona di più?
L’arte, soprattutto quella visiva, perché è anche politica e scienza. E credo che a volte cambi la storia. Imparo tanto dagli artisti visivi, del passato e del presente, almeno quanto dai colleghi drammaturghi e dai grandi autori.
Ancora in Freetime si dice che nel 2045 l’intelligenza artificiale si farà padrona della vita e bisognerà pagare per il tempo libero… Non le sembra sia già così?
Mi sembra che quello a cui assistiamo oggi rischi di essere solo l’inizio
Crede nell’amore? E nell’amicizia?
Sì, certo. Il problema è che è sempre più difficile esprimerli. Viviamo frazionati, a pezzi. Solo per fare un esempio, a volte proporre a una persona un rapporto a pagamento è più facile che non dirgli o dirle quanto potresti considerarla amica o compagna. Sento anche un grande amore per i miei antenati, per alcuni morti e per alcune figure del passato. Poi mi rendo conto che gestire rapporti con fantasmi sia più facile che non con chi è fisicamente presente.
Il linguaggio che utilizza appare criptato… è così o è solo un gioco ben riuscito?
Mi sento profondamente napoletano ed europeo. E come in qualche modo le dicevo prima,sono nato in una città che ha delle piazze che presentano una concentrazione paurosa di scibile umano (pensi a Piazza San Domenico Maggiore). Mi sento molto legato a queste concentrazioni di energia umana e culturale, secoli e secoli di lotte e di conquiste. Per i miei colleghi americani raccontare un heritage è più facile, si tratta di pochi secoli (naturalmente ci sono culture straordinarie precedenti, che però sono rimaste sommerse e sono difficilmente ricostruibili), possono ricorrere a narrazioni che, se non sono lineari, sono quantomeno dirette. Noi europei dobbiamo ricorrere a sintesi più complesse, abbiamo molto più materiale da affrontare, dobbiamo usare molto di più il segno, come facevano i maestri del nostro Rinascimento. La connessione a questo heritage per un autore è un dovere verso la necessità di ampliare i discorsi. Provare ad ampliare i discorsi è un modo per provare a non abbandonare le persone.
Gian Maria Cervo è drammaturgo, traduttore, direttore artistico e curatore italiano, autore, insieme ai fratelli Presnyakov, di Freetime. Freetime è stato presentato all’interno de IL TEATRO DEI LUOGHI FEST 2021 nell’Ortale dei Cantieri Teatrali Koreja a Lecce; regia di Pierpaolo Sepe.